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Dissolversi nella meraviglia

Di fronte alla vastità del conoscibile non si può che essere colti da una sensazione di trasalimento, uno smarrimento carico di potenzialità inespresse.

Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere. […] Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell’esperienza non si può accumulare, l’esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c’è un cane spaventato dalla discontinuità dell’esperienza.

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora. La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.

Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.

Da Questo immenso non sapere di Livia Chandra Candiani

Vivere l’istante, essere totalmente presenti a ciò che è, semplicemente e senza commenti. Basta questo a trasformare un’intera esistenza.

La nostra vita succede di continuo. È una vita meravigliosa, fluida, mozzafiato, che ci piaccia o no. E tuttavia c’è, per tutto il tempo. E noi abbiamo un insieme molto rigido, ristretto e ridotto di comportamenti con cui cerchiamo di elaborare questa esperienza sterminata.

Il segreto di sperimentare la vita nella sua pienezza è semplicemente essere qualsiasi cosa stiamo sperimentando. Diciamo che per qualche minuto riusciamo a sentire quello che stiamo sentendo invece di rifuggirlo, pensarci, analizzarlo, prendere una pillola, ubriacarci o quello che facciamo pur di non essere costretti a sentirlo. Se riusciamo davvero a restare con questo, a mostrarci amichevoli e curiosi con la nostra sofferenza, possiamo cominciare a trasformarci. Quando viviamo con un pensiero dominante, la sofferenza si rinsalda. Non può muoversi. Non può fare niente. Rimane lì incastrata e ci fa impazzire.

Quando riusciamo a lasciar andare il desiderio personale, basato sul pensiero che le cose vadano in un determinato modo, per la prima volta la sofferenza che proviamo può cominciare ad aprirsi. E quando si apre, la sensazione diventa chiara e serena. E alla fine ci sono silenzio e meraviglia. In definitiva, non c’è niente: solo meraviglia. Sotto tutte le nostre difficoltà c’è questa fonte di silenzio, che è la vera saggezza. Comunque la vogliate chiamare, è lì.”

Da Meraviglia quotidiana di Charlotte Joko Beck

L’incontro con se stessi, così come l’incontro con l’altro, aprono panorami vastissimi ed inaspettati, purché ci si ponga nell’attitudine sincera e pulsante del ricercatore. Svestirsi delle numerose e svariate identità che ci attribuiamo per raggiungere quella nudità intima e disarmante che è il nostro nucleo più profondo è una danza stupefacente.

Non domandate all’altro di essere altra cosa che quello che è. Il suo problema, il suo funzionamento, la sua affermazione: è la vostra meraviglia. È straordinario vedere un essere umano: vedere come ci si è costruiti, come ci si è immaginati; la testa, le orecchie, il ventre, la voce, l’intelligenza, la viltà, l’odore che ci si è dati. Tutto questo voi ve lo siete dati: è il dono che vi siete fatti. Se incontrate un inconveniente nella vostra vita, è un dono che vi fate. Fino a che ciò non vi è chiaro, lo vivete come un antagonismo, lottate. Un giorno, voi vedete che quello che vi appariva come un dramma, profondamente, è il vostro dono.

[…]  È straordinario vedere! Vedere la natura, una foglia, sentire il vento, sentire un grido. Niente è più straordinario della vita. Credere che io abbia bisogno d’altro se non di questo straordinario regalo è una mancanza di rispetto per la bellezza della vita. Non ho bisogno d’altro che di una nuvola.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

Ci si può chiedere se la conoscenza possa prescindere dall’esperienza, se si possa comprendere davvero qualcosa senza sperimentarlo. Ma si è disposti a correre il rischio di rispondere a tali quesiti?

Un pupazzo di sale, dopo avere viaggiato per valli e per monti, giunse fino all’oceano. Lì, meravigliato da una bellezza e una vastità che non aveva mai visto prima, rimase in contemplazione.
«Dimmi, chi sei?» chiese il pupazzo di sale all’oceano.
«Chi assaggia conosce. Entra e comprenderai» rispose l’oceano.
Il pupazzo entrò quindi nell’oceano. E tanto più vi si addentrava, tanto più si scioglieva.
Un istante prima di dissolversi completamente, il pupazzo sorrise affascinato: «Ora comprendo chi sei!».
E svanì.”

Da Il dito e la luna – 101 storie Sufi

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Mantra Musica & Percussioni

Possa esserci…

Sarveśām Svastir Bhavatu
Sarveśām Sāntir Bhavatu
Sarveśām Pūrnam Bhavatu 
Sarveśām Mangalam Bhavatu
Sarve Bhavantu Sukhinaha
Sarve Santu nirāmayaha 
Sarve Badrāri Pasyantu 
Mā Kascidh-dhuhkha Bhāga-Bhavet
Om śānti śānti śānti

Possa esserci benessere/prosperità in tutti
Possa esserci pace in tutti
Possa esserci pienezza/completezza in tutti
Possa esserci successo spirituale in tutti
Possano tutti essere prosperi e felici
Possano tutti essere liberi dalla malattia
Possano tutti vedere ciò che è spiritualmente edificante
Che nessuno soffra
Om pace pace pace

Si ritiene che l’origine di questo mantra provenga dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, pur non nella sua forma attuale. Si tratta di un’invocazione di armonia e benedizioni per tutta la creazione (Lokakṣema).

Inviare auguri di bene, abbracciare virtualmente ogni creatura, accarezzare l’anima del mondo apparentemente scissa in innumerevoli individualità, ha il potere di ampliare il cuore, scaldarlo e ammorbidirlo.

Il canto del mantra e la vibrazione che esso produce diventano strumenti di pace, di fratellanza viva e pulsante, che annientano ogni sentimento di invidia e di gelosia.

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Il supremo dono

Ci sono momenti in cui, più che in altri, ci si affanna per inseguire la chimera del regalo perfetto, per gli altri o per noi stessi. Invariabilmente la scelta cade su un oggetto più o meno inutile e certamente lontano dall’essenziale. Quanto siamo in grado di riconoscere ciò che di prezioso è già in nostro possesso, costantemente disponibile?

“Restate tranquilli, non c’è niente da capire. In questo acquietamento potrete iniziare a lasciar vivere quel che è importante. […]

Un giorno non vi dissiperete più in libri, in insegnamenti o in seminari. Quel che è importante per voi siete voi stessi. È cosa gratuita; l’avrete sempre sottomano; non avrete nessun luogo ove andare a meditare, dove essere tranquilli. È il vostro dono ad ogni istante. Tornate a questo costante dono. […]  

Tornate alla vostra propria esperienza d’essere, che è costantemente disponibile. Nulla ve ne allontana. La cosa più profonda siete voi.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

E quante volte accade che ci si senta avviliti e frustrati nelle nostre aspettative a fronte di un dono ricevuto, ma percepito come inadeguato a noi, alla circostanza o al momento?

“All’età di otto anni sognate di possedere una macchina rossa e a vent’anni desiderate essere liberi da voi stessi. Sono dei simboli. […] Constatare che l’aspirazione profonda è smettere di pretendere e, nello stesso momento, lasciare che questa comprensione si elimini.

È importante svelare in noi quest’avidità di voler ricevere, prendere, essere. Sempre a mendicare come un cane che ha bisogno di un osso. “Voglio quello, se avessi quello, datemi quello…”, constatate il meccanismo. Si ha bisogno d’affetto, riconoscimento, rispetto, insegnamento, di possedere questo, quello… Si è sempre nell’atto di elemosinare, in tutte le direzioni.

Familiarizzarsi con questo funzionamento, senza commento. […] Non si tratta di colpevolizzare, ma di vedere come opero.

Quando chiedo, non posso ricevere. Più prendo coscienza della mia avidità, più me ne libero. Finchè voglio raggiungere, finchè aspetto qualcosa, quest’esigenza mi impedisce di ricevere. Non si può reclamare un dono, la grazia, la gioia. Non si può accogliere che quando c’è apertura.

[…] Rendersi conto della nostra insaziabilità è la cosa più grande.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

Non desiderare niente è il supremo dono, quello che libera, alleggerisce, inebria.

“Riconoscere la cupidigia, osservare la domanda “ho bisogno”. A un dato momento, un’immensa risata mi viene al cuore quando sento salire in me il “ho bisogno”. Questa risata è la libertà. In questo spazio, più niente mi è necessario. Che resta? Il dono, senza azione di donare né nessuno che doni.

Donare rende felici; non ricevere. Ricevere ingombra, appesantisce, limita. Non voglio ottenere nulla. Non mi auguro iniziazioni, trasmissioni, insegnamenti: tutto questo è imbarazzante per me, mi stordisce, mi chiude. No, non desidero niente. Io mi riferisco a questo spazio, a questa risonanza.

Donare senza nessuno che doni. Quando dono, mi libero. Offrire porta libertà. La vita non è che dono, non c’è separazione.

Fino a che voglio prendere, ricevere, seguire un insegnamento, non posso che rifiutarlo pretendendo di desiderarlo. È un po’ come qualcuno che sollecita un’iniziazione, che reclama un regalo. Non si esige un regalo. Si è accessibili. L’iniziazione, l’insegnamento, il regalo arriva nell’istante di apertura, mai quando lo si reclama, quando lo si spera. Non c’è niente da desiderare. Nella non domanda, tutto è ricevuto. Finché sono in attesa, dico no.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret
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Letture e spunti Mantra

La pienezza al di là da ogni dualità

oṁ pūrṇamadaḥ pūrṇamidaṁ pūrṇāt pūrṇamudacyate
pūrṇasya pūrṇamādāya pūrṇamevāvaśiṣyate
oṁ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ

Īśa Upaniṣad

Questa è l’invocazione con cui inizia l’Īśa Upaniṣad, che mette in evidenza due concetti fondamentali della tematica Vedānta: Quello e Questo. l’Īśa è riconosciuta come una delle Upaniṣad maggiori più antiche. Appartiene al capitolo XIV dello Yajur Veda “bianco” e rientra nella parte Mantra (rituale) del medesimo Veda. La sua datazione può essere fatta risalire al 700 a.C. Una possibile traduzione dell’invocazione sopra citata potrebbe essere la seguente:

Om!
Quello è Pienezza.
Questo è Pienezza.
La Pienezza nasce dalla sua Pienezza:
Tutto ciò che esiste è Pienezza.
Om! Pace, Pace, Pace.

Om, la vibrazione cosmica, è il mantra di Brahman, l’Assoluto, è il suono per eccellenza e saperlo far risuonare significa entrare in perfetta sintonia con Brahman.

Quello (adaḥ) si riferisce alla Realtà metafisica ultima, assoluta, al Brahman, il quale è al di la del tempo-spazio-causalità, sempre identico a se stesso. Brahman sfugge a ogni tentativo di definizione intellettuale, non rientra in alcuna categoria. La sua incondizionatezza non è minimamente toccata dal mondo dei nomi e delle forme che rappresentano solo ombre sullo schermo inqualificato. Brahman, per la sua intrinseca natura, rimane sempre Pienezza e Pace profonda, condizioni del vero Essere che non nasce e non muore; in Lui esistono tutte le infinite possibilità.

Questo (idaṁ) si riferisce a ciò che chiamiamo mondo manifesto, di cui l’uomo è parte integrante, caratterizzato dalle sei qualità: emergenza, esistenza empirica, crescita, maturità, malattia o declino e morte (considerate dal punto di vista empirico). Le innumerevoli forme universali (riflesso del Brahman), a qualunque dimensione possano appartenere, sono idee-fenomeni che nascono, crescono e svaniscono; ma l’Idea-essenza rimane Pienezza. Questo, l’apparenza fenomenica, non è pura illusione o allucinazione, come non è illusione o allucinazione il sogno notturno del dormiente; è solo quando lo confrontiamo con l’Incondizionato che diventa privo di qualsiasi valore. L’angoscia e l’affanno sopravvengono quando l’essere umano si identifica con le forme e, per ignoranza metafisica, tenta di trattenerle, di eternare ciò che non può mai essere eterno poichè l’intrinseca natura degli oggetti è caratterizzata dall’instabilità.

Nel considerare la manifestazione, si può dire che essa è pervasa da tre aspetti: Esistenza (sat), Coscienza (cit) e Beatitudine (ananda). In altre parole: vita, coscienza e amore. Brahman dimorante nel cuore di ogni individuo è chiamato atman, il Sé, il Testimone. La coscienza individuale che comprende se stessa come Pienezza assoluta non potrà più modificarsi, né identificarsi con ciò che non è.

La Īśa Upaniṣad affronta il fondamento della speculazione indiana, l’aspetto cioè della dualità-polarità. Tutte le dualità sono limitazioni e prigioni; esse non sono né reali né non-reali, dipende dal punto di vista da cui ci si pone. Di là da ogni dualità esiste l’Unità e dietro questa il sostrato da cui emerge l’Uno ontologico.

Fonte: CINQUE UPANISAD Isa – Kaivalya – Sarvasàra – Amrtabindu – Sira, Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael, Edizioni Asram Vidya

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Dispiegare le ali e prendere il volo

Eccoci: donne e uomini con un corpo strettamente connesso alla terra, con membra pesanti che ci ancorano al suolo. Ed è forse anche per questo che siamo affascinati dall’idea del volo.

È significativo che Viṣṇu dorma su un serpente e cavalchi un’aquila [Garuḍa, n.d.r.]. I serpenti e le aquile sono infatti nemici nati; il serpente mangia le uova dell’aquila, e l’aquila caccia il serpente. Tuttavia, Viṣṇu convive sia con il predatore sia con la preda, ed è per questo che è il custode. Conosce il valore del serpente e dell’aquila e non preferisce l’uno all’altro, perché sa che ognuno di essi svolge un ruolo importante nel cosmo. Garuḍa evoca la visione a volo d’uccello, lo sguardo strategico dell’umanità, invece il serpente incarna la visione rasoterra, tattica, degli esseri umani. Così, Viṣṇu ha sia una visione ampia sia una visione focalizzata del mondo, il che fa di lui il grande osservatore e custode di tutte le cose.

Da Yoga e mito di Devdutt Pattanaik

Ma quando viene a mancare il terreno sotto i piedi, allora imparare a volare diventa un’esigenza, una via d’uscita.

PC: Lo spirito è tutto.

TS: Cosa vuoi dire?

PC: Credo che un altro modo per dirlo sia che l’attitudine è tutto. […] È vedere il bicchiere mezzo pieno. E in ciò che accade c’è sempre un potenziale per crescere.
Questo non significa sentirsi bene o male, ma andare oltre queste etichette di bene e male. Puoi sperimentare la tua vera natura come vasta, aperta, nuova, spassionata e non presa da queste etichette che mettiamo sulle cose.
Nel processo di invecchiamento lo spirito è tutto. Guardare alle cose come positive, guardare avanti – proviamo a usare la parola avanti invece di positivo, perché ciò include qualsiasi cosa possa accadere. Invece di andare indietro cercando di trovare queste piccole isole di sicurezza che continuano a venir meno, impari invece a volare o a fluttuare e a stare bene nel senza forma, senza terreno sotto i piedi, nell’aperta indeterminatezza delle cose, che è ciò che sei sempre stata.
Non sai mai cosa stia per accadere, e passando da un momento all’altro non sai mai chi sei. Tutto accade piano piano. Vedi, per me, a questo punto, è semplicemente elettrizzante come tutto continui ad accadere. Persino la noia accade.”

Da Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio di Pema Chödrön

E chi più dei poeti può insegnarci a librarci in alto, ad adottare prospettive inattese ed ardite?

E poi la vita ci insegna che bisogna sempre volare in alto. Più in alto dell’invidia, più del dolore, della cattiveria… Più in alto delle lacrime, dei giudizi. Bisogna sempre volare in alto, dove certe parole non possono offenderci, dove certi gesti non possono ferirci, dove certe persone non potranno arrivare mai.

Alda Merini

Ho bisogno di alleggerire le spalle, perché è da troppo tempo
che sono cariche di pesi che non ho voluto e non ho chiesto.
E poi sotto ci sono le mie ali. Ci sono io, che ho bisogno di volare.

Alda Merini

Gabbiani

Non so dove i gabbiani
abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua
ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi
amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Vincenzo Cardarelli

Piegare le ali
distendere le ali
sprimacciarsi
becchettare
buttarsi all’aria
posarsi
mettere il capo sotto l’ala
abbandonarsi
al governo del vento
contrastare l’ora del buio
con stracci di voce
nell’aria blu.
Farsi un nido
ramo su ramo
filo per filo
abbandonarlo
migrare
tornare
fissare un punto in aria
chinare il capo
aprire il becco
aspirare
il cielo
disobbedire agli angeli
e agli astronauti
farsi terra e polvere
giú giú
restituirsi
a vermi erba e assenza
di gravità:
leggero leggerissimo
chi cade.

Da Fatti vivo di Chandra Livia Candiani

Ed in fondo ogni ricercatore auspica di poter assistere al misterioso ed ipnotico volo d’uccelli in grado di aprire le porte della comprensione profonda, del Sé libero dallo spazio e dal tempo.

Un mutamento improvviso accadde una sera sul lungomare di Bombay. Stavo guardando gli uccelli volare, senza formulare un pensiero o un’interpretazione, quando fui completamente preso da essi e avvertii che ogni cosa stava accadendo dentro di me. In quel momento conobbi me stesso consapevolmente. La mattina successiva seppi, di fronte alla molteplicità della vita quotidiana, che «essere comprensione» si era determinato. L’auto-immagine si era totalmente dissolta, e libero dal conflitto e dall’interferenza dell’immagine dell’io, tutto ciò che accadeva apparteneva all’essere consapevolezza, alla totalità. La vita scorreva senza essere attraversata dalle correnti dell’ego. La memoria psicologica, il piacere e il dispiacere, l’attrazione e la repulsione, erano svaniti. La presenza costante, che chiamiamo il Sé, era libera da ripetizione, memoria, giudizio, comparazione e valutazione. Il centro del mio essere era stato proiettato spontaneamente fuori dal tempo e dallo spazio in una calma senza tempo. In questo non-stato dell’essere la separazione tra «tu» e «io» svaniva completamente. Nulla appariva fuori. Ogni cosa faceva parte di me, ma io non ero in essa. C’era soltanto l’unità.

Conobbi me stesso nell’accadimento presente, non come un concetto, ma come un essere senza localizzazioni nel tempo e nello spazio. In questo non-stato c’era libertà, piena gioia senza oggetto. C’era puro ringraziamento, senza un oggetto di cui ringraziare.

Non era un sentimento affettivo, ma una libertà da ogni affettività, una freddezza prossima al calore.

Da La naturalezza dell’essere di Jean Klein
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Il principiante e l’uomo di seconda mano

Quante volte incontriamo negli altri o adottiamo noi stessi l’atteggiamento saccente di chi già è convinto di sapere, di conoscere? Se volessimo dissetarci con un bicchiere d’acqua ristoratrice, ma ne trovassimo uno già colmo di liquido stantio, non getteremmo il contenuto per versarvene di nuovo, fresco ed effervescente?

La gente dice che praticare lo Zen è difficile, ma fraintende il perché. Lo Zen non è difficile perché è duro sedere con le gambe incrociate nella posizione del loto, o ottenere l’illuminazione. È difficile perché è arduo mantenere pura la nostra mente e pura la nostra pratica nel suo senso fondamentale. […] In Giappone abbiamo un’espressione, shoshin, che significa “mente di principiante”. Il fine della pratica è sempre quello di conservare la nostra mente di principiante. […] Per gli adepti zen la cosa più importante è non essere dualistici. La nostra “mente originaria”’ racchiude tutto in sé. Dentro di sé è sempre ricca e autosufficiente. Non dovete perdere lo stato mentale di autosufficienza. Ciò non significa una mente chiusa, bensì una mente vuota e pronta. Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche. […] Se discriminate troppo, vi limitate. […] Se la vostra mente si fa esigente, se bramate qualcosa, finirete per violare i vostri stessi principi: non mentire, non rubare, non uccidere, non essere immorali, e così via. Se conservate la vostra mente originaria, i principi si conserveranno da soli. Nella mente di principiante non si trovano mai pensieri del tipo: “Io ho ottenuto qualcosa”. Ogni pensiero egocentrico limita la nostra vasta mente. Quando non abbiamo alcun pensiero di conseguimento, alcun pensiero di un sé, allora siamo dei veri principianti. Allora possiamo realmente imparare qualcosa. La mente di principiante è la mente della compassione. Quando la nostra mente è compassionevole, diventa sconfinata. […] Dunque la cosa più importante è conservare sempre la mente di principiante. […] È  questo anche il vero segreto dell’arte: essere  sempre un principiante. […]

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Quando le restrizioni fisice, mentali, emotive non sono più vissute come limiti, ma come ambito stesso della pratica, opportunità di indagine e scoperta, nasce un’esperienza davvero nuova e potenzialmente illuminante.

Noi diciamo che la nostra pratica deve essere priva di idee di conseguimento, priva di qualsiasi aspettativa, persino in merito all’illuminazione. […] Fermare la mente non significa fermare le attività mentali. Significa che la mente pervade il corpo intero. La mente segue il respiro. […] Con la mente intera sedete con le gambe doloranti senza esserne disturbati. Ciò significa sedere in meditazione senza alcuna idea di conseguimento. All’inizio avvertirete una certa restrizione nella posizione fisica, ma quando non siete più disturbati dalla restrizione, avete scoperto il significato di “vuoto è vuoto e forma è forma“. Quindi trovare la vostra propria via sotto una certa restrizione è la via seguita dalla pratica. […]  Quando le restrizioni che avete non vi limitano più, allora parliamo di pratica. […] Per il principiante praticare senza sforzo non è vera pratica. Per il principiante la pratica richiede grande sforzo […] Ma se voi semplicemente fate del vostro meglio nello sforzo di continuare la pratica con tutta la vostra mente e tutto il vostro corpo, senza idee di conseguimento, allora qualsiasi cosa facciate sarà vera pratica. Il vostro intento dovrebbe essere semplicemente continuare. Quando fate qualcosa il vostro intento dovrebbe essere semplicemente farla e basta. […] Dopo un po’ di tempo che praticate, vi accorgerete che non si possono fare progressi rapidi e straordinari. […] Anche se vi sforzate moltissimo, progredirete sempre soltanto un po’ per volta. […] Perciò non c’è alcun bisogno di preoccuparsi dei progressi da fare. […] Non ci aspettiamo nemmeno di progredire. Basta essere sinceri ed esercitare pienamente il proprio sforzo ad ogni istante. Non c’è alcun Nirvana al di fuori della nostra pratica, distinto da essa.

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Se la nostra idea di progressione si serve della ripetizione per migliorare di volta in volta la performance, eccoci scivolare nel conosciuto, allontanarci dal qui e ora fatto di prime esperienze che sono inesorabilmente anche le ultime (perché mai ci si può bagnare nelle stesso fiume).

[…] si lavora senza memoria. Ogni volta che il movimento è fatto, è la prima e l’ultima volta. Questo bruciare della memoria è essenziale per evitare di essere nella ripetizione. Non può esservi progressione possibile poiché è sempre la prima volta. Non si è mai più lontani o meno lontani, più vacanti o meno vacanti della volta precedente. Si esplora quel che è lì, si è come si è. Non è in rapporto con la seduta precedente né con la seguente. Ciò permette di attraversare una forma di progressione immaginaria. […] A livello del lavoro, è come un pianista che suona un pezzo di musica. Durante mesi, suona sempre lo stesso pezzo. Il vicino, che non è musicista, ha l’impressione che sia la stessa ripetizione. Per il pianista ogni giorno è nuovo, perché ogni volta il suo tocco sarà cambiato, ogni volta l’umidità farà sì che il piano risuoni con una sonorità differente, eccetera. Per noi è la stessa cosa. Il corpo è uno strumento di musica. Ogni volta che il corpo è utilizzato, si scopre una risonanza differente rispetto all’ambiente. Ogni volta che sollevo il braccio, che il busto scende in avanti, è una cosa nuova, una nuova esperienza. Non è una ripetizione, non si cerca di andare sempre più lontano e di meglio in meglio. Ogni volta, si riparte da zero. È sempre la prima volta. Nello stesso tempo, è sempre l’ultima volta. È per questo che dopo il movimento occorre lasciare che esso muoia, perché non vi sia memoria. L’indomani, lo stesso movimento è rifatto, e non è lo stesso, è un altro che gli assomiglia dall’esterno, ma per colui che sente è sempre nuovo. In questa novità, il bisogno di cambiare la posa si smorzerà.

Da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner

È solo nella più disorientante assenza di riferimenti che può esprimersi la vera creatività. Ecco allora che dallo spaesamento può sorgere la lucidità, dallo smarrimento la centratura.

La mente, che è di solito pigra e indolente, trova facile seguire quello che qualcun altro ha detto. Il seguace accetta l’“autorità” come mezzo per ottenere ciò che viene promesso da un particolare sistema filosofico o di pensiero; egli vi si aggrappa, ne dipende e quindi ne rafforza l’“autorità”. Un seguace dunque, è un uomo di seconda mano; e la maggior parte della gente è del tutto di seconda mano. Possono credere di avere qualche idea originale sulla pittura o sulla letteratura o su altro, ma nell’essenza, dal momento che sono condizionati a seguire, a imitare, ad adeguarsi, sono diventati esseri di seconda mano, assurdi. Questo è un aspetto della natura distruttiva dell’autorità. Come esseri umani, seguite psicologicamente qualcuno? Non parliamo dell’obbedienza esteriore, del seguire le leggi – ma interiormente, psicologicamente, seguite? Se lo fate allora siete essenzialmente di seconda mano; potete fare ottimi lavori, condurre una buona vita, ma tutto ciò ha pochissimo valore. C’è anche l’autorità della tradizione. Tradizione significa: “trasportare dal passato al presente” – tradizione religiosa, familiare, razziale. E c’è la tradizione della memoria. […] Una volta istituito un modello, la mente lo ripete. […] Ma tutto si è trasformato in tradizione e non scaturisce più dalla prontezza, dall’acutezza e dalla chiarezza. La mente che abbia coltivato la memoria, agisce in base alla tradizione come un computer – ripetendo ancora e ancora. Non può mai ricevere alcunché di nuovo, o ascoltare in modo del tutto diverso. […] Così ci si chiede: “Che debbo fare?”, “Come posso sbarazzarmi del vecchio meccanismo, del vecchio nastro?”. Si può sentire il nuovo solo quando il vecchio nastro taccia del tutto senza sforzo, quando si è seri nell’ascoltare, nello scoprire, e si può dare tutta la propria attenzione. […] Come può un cervello, una mente così condizionata dall’autorità, dall’imitazione, dal conformismo, dall’adattamento, ascoltare qualcosa di totalmente nuovo? Come si può vedere la bellezza di una giornata se la mente, il cuore, il cervello sono offuscati dal passato che ha acquistato tanta autorità? Se si può realmente percepire il fatto che la mente è oppressa dal passato e condizionata da varie forme di autorità, che non è libera e quindi è incapace di vedere in modo completo, allora senza sforzo il passato viene eliminato. La libertà implica la totale scomparsa di ogni autorità interiore. Da questa qualità della mente deriva una libertà esteriore – qualcosa di totalmente diverso dal reagire opponendosi o resistendo. […] Quando si comprende la libertà si comprende anche cosa sia la disciplina. E questo può sembrare piuttosto contraddittorio poiché generalmente pensiamo che libertà significhi libertà da ogni disciplina. Qual è la qualità di una mente altamente disciplinata? La libertà non può esistere senza la disciplina; […] Cosa significa dunque “disciplina”? Secondo il vocabolario il significato della parola “disciplina” è “imparare” – non una mente che si costringe a seguire un certo modello di azione secondo un’ideologia o una fede. Una mente capace di imparare è del tutto diversa da un’altra capace solo di conformarsi. Una mente che impari, che osservi, che veda effettivamente “ciò che è”, non interpreta “ciò che è” secondo i propri desideri, il proprio condizionamento, i propri particolari piaceri. Disciplina non vuol dire repressione e controllo, e non è neppure adattamento ad un modello o a un’ideologia; significa che una mente vede “ciò che è” e impara da “ciò che è”. Una simile mente deve essere straordinariamente sveglia, consapevole. […] La disciplina imposta dai genitori, dalla società, dalle organizzazioni religiose significa conformismo. […]Disciplina è imparare, non conformarsi. Il conformismo comporta il paragonarsi agli altri, misurare se stesso secondo cosa si è o si crede di essere con l’eroe, il santo, e così via. Dove ci sia conformismo deve esserci paragone […]. Sin dall’infanzia siamo condizionati a far paragoni […] Nel corso della nostra educazione ci abituiamo a far paragoni, nelle scuole si assegnano voti e si fanno esami. Non sappiamo cosa voglia dire vivere senza far paragoni e senza essere competitivi, e quindi vivere in modo non aggressivo, non competitivo, non violento. Paragonare se stesso ad un altro è una forma di aggressività e di violenza. […] Il perfezionamento di se stessi è proprio l’antitesi della libertà e dell’imparare. […] Ciò che si può descrivere è il conosciuto, e la libertà da ciò che è conosciuto si può avere solamente quando ogni giorno si muore a ciò che è conosciuto, ai colpi, alle adulazioni, a tutte le immagini che avete creato, a tutte le vostre esperienze – morire ogni giorno di modo che le stesse cellule del cervello diventino fresche, giovani, Innocenti.

Jiddu Krishnamurti
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Mantra Pranayama Storie, racconti e poesie

Gayatri mantra, stimolo per la mente

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt

Rg-veda 3, 62, 10

Probabilmente nessuna traduzione può rendere giustizia dei molteplici significati e dell’eco profonda che risuona nel cuore di uno hindu all’ascolto di questo mantra, ma una possibile lettura potrebbe essere la seguente:

“Meditiamo quella desiderabile gloria di Savitur, ch'egli stimoli le nostre menti”.

O anche:

“Noi meditiamo (dhīmahī) sulla gloria di Colui (Savitur) che ha creato l'universo (Bhūr: terra o piano fisico, spazio esterno o Bhaya Akasha; Bhuvah: cielo o piano astrale, spazio interno o Antarakasha; Svah: Cosmo Infinito o piano celeste, spazio del Sé o Cidakasha)
Colui che deve essere adorato (varenyam)
Colui che è l'incarnazione (devasya: del divino) della luce e rimuove i peccati e l’ignoranza (bhargo)
Che Egli possa illuminare (prachodayāt) il nostro (nah) intelletto (dhyo)”

Savitur, I’”Impulsore” I’”Incitatore”, rappresenta in questo conteso il nome del Sole in quanto simbolo del Brahman che sostiene e vivifica l’universo. 

Dal nome Savitur la Gayatri è anche detta Sāvitrī ed è considerata come il più sacro di tutti i mantra vedici. Contiene infatti, nella sua interezza, l’essenza di tutti i Veda, ossia i testi sacri considerati di origine divina e trasmessi direttamente agli antichi veggenti (rsi). I Veda sono costituiti da 4 raccolte:

  • Rg-veda, (delle strofe laudative),
  • Sāma-veda (dei canti rituali),
  • Yajur-veda (delle formule sacrificali) e
  • Atharva-veda (dei sacerdoti del fuoco con funzioni di interpreti di riti magici).

Anche Krishna nella Gita dice: “Io sono il sacro Gayatri” (Bhagavad Gita, X. 35).

Ogni hindu riceve la Gayatri durante la cerimonia iniziatica (upanayana) che lo fa diventare uno dvija, “due volte nato” e a partire da quel momento la sua ripetizione fa parte dei suoi più sacri doveri quotidiani, momento essenziale della samdhyā (crepuscolo del mattino e della sera, propizio alla preghiera ed alla meditazione) durante la quale viene utilizzata sia nel japa (preghiera mormorata o mentale) sia nel prānāyāma.

La Gayatri viene visualizzata:

  • all’alba (momento in cui prevale la qualità sattvica) come la Dea Vāc (la Parola),
  • a mezzogiorno (prevalenza rajasica) come Sāvitrī (divinità che presiede ai prana),
  • al tramonto (qualità tamasica) come Sarasvatī (parola non detta, fiume sotterraneo che scorre in forma non manifesta).

La Gayatri è divisa in tre parti in cui la prima è costituita dal pranava Om e dalle mahāvyāhrti (grandi invocazioni). Il cantore contempla la gloria della luce che illumina i tre mondi o regioni dell’esperienza.

om bhūr bhuvah svah

La seconda parte rappresenta la gloria, lo splendore e la grazia che emanano da quella luce.

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī

La terza parte è una preghiera per la liberazione finale per mezzo del risveglio dell’intelligenza innata che come luce pervade l’universo.

dhiyo yo nah pracodayāt

È una invocazione universale che non implora misericordia o perdono, ma invoca e chiede un chiaro intelletto, cosicché la verità possa esservi riflessa senza distorsioni o deformazioni.

Nel japa deve essere ripetuta dieci, ventotto o centootto volte, facendola precedere dal pranava e dalle tre mahāvyāhrti, le «grandi acclamazioni» dei tre mondi (“om bhūr bhuvah svah”, cioè “om terra, spazio intermedio, cielo”, rispettivamente stato grossolano, sottile e causale) e facendola seguire ancora dal pranava

Nell’uso per il prānāyāma invece la Gayatri deve essere preceduta dalle sette yāhrti, cioè dalle “acclamazioni” dei sette mondi, precedute ciascuna dal pranava e deve essere poi seguita da un mantra detto śiras o «testa».

Om bhūr (terra)
Om bhuvah (atmosfera)
Om swah (cielo)
Om mahah (grande)
Om janah (che non ha inizio)
Om tapah (che è la luce della Saggezza)
Om satyam (che è Verità)
tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt
āpo (acqua) jyotī (luce) raso (sapore) mrtam brahma bhūr bhuvah svar (cieli luminosi) om (possiamo dunque trovare il divino ovunque intorno a noi: nell'acqua, nell'aria e nel cibo)

Questa formula deve essere mentalmente pronunciata per intero in ciascuno dei tre momenti del prānāyāma

  • mentre si inspira attraverso la narice destra, bisogna concentrarsi sull’ombelico e visualizzarvi Brahmā di colore rosso;
  • trattenendo il respiro, è necessario concentrarsi sul cuore visualizzandovi Visnu di colore blu;
  • infine, espirando attraverso la narice sinistra, l’attenzione va diretta sulla fronte dove di visualizza Śiva di colore bianco. 

Gayatri (triplice inno) è anche il nome che viene applicato a un metro vedico di 24 sillabe (tre volte otto).

La Gayatri è anche venerata come figura divina, madre dei Veda (dodicesimo libro del Devi-Bhagavata Purana) e dei brahmani, Essa personifica l’energia divina, solare, che vivifica l’universo, e il suo corpo è il mantra stesso, protegge tutti coloro che la cantano e, in quanto energia primordiale (Śakti), ha creato i tre Guna, i tre principi fondamentali che reggono le leggi dell’Universo: sattva, rajas e tamas

Il primo si identifica con Vishnu, il secondo con Brahmā e il terzo con Śiva. Gayatri veniva adorata dalle divinità come la Grande Madre.

La leggenda racconta che quando i tre erano ancora fanciulli, Gayatri Devi li mise nella culla dello spazio, Akasha, che era sospesa dalle quattro catene della Sapienza (i quattro Veda) e cantò loro il Sacro Mantra OM per farli addormentare. Dopo di che, avendo visto che i tre figli, posseduti dai tre Guna, stavano dormendo, scomparve. Passò molto tempo, i tre fanciulli si svegliarono, e non vedendo la madre, si misero a piangere. Crebbero e vagarono nel vuoto dello spazio posseduti dai tre Guna e si prefissero lo scopo di ritrovare la Madre. Per fare ciò, si sedettero in meditazione, per lunghi anni e il fuoco della loro austerità cominciò a divampare nell’intero universo. Allora la madre, colta da grande compassione, mise in atto “lila” e decise di apparire loro innanzi e, benché la Sua visione fosse onnipervadente, si manifestò nella Sua forma individuata. Quando i tre dei la videro, furono abbagliati dal Suo fulgore: essa indossava un abito rosso e ghirlande di fiori ornavano il suo collo, il viso splendeva come la luna piena, aveva tre occhi e, al centro della fronte, un punto rosso vermiglio. Le sue molteplici braccia reggevano le armi celesti come il fiore di loto, la sacra conchiglia, un teschio bianco, una corda e altre ancora. Portava bracciali e cavigliere e anelli e gioielli splendenti e vari ornamenti: venne incontro ai suoi figli correndo. Li accolse tra le sue braccia e disse loro: “Oh! Figli Divini, avrei dovuto correre a voi molto tempo addietro, ma volevo che voi guadagnaste il potere della creazione, Preservazione e Dissoluzione attraverso l’austerità, affinché le anime che prendono parte al gioco divino nel Cosmo (Lila), potessero vedere gli ideali celati dietro l’austerità e ne prendessero esempio. Io ero con voi, però non ero visibile poiché abito nel regno della trascendenza. Ora mi compiaccio e vi conferisco il triplice potere: che Brahmā, attraverso le qualità di rajas (passione e attività) crei; che Vishnu attraverso le qualità di sattva (equilibrio), preservi: che Śiva attraverso la qualità di tamas (distruzione) porti la dissoluzione al termine di ogni ciclo cosmico. Rivolgetevi a me durante i momenti di dubbio e io vi sarò di guida.” Detto questo, la Madre Divina scomparve.

Fonti:

  • Enciclopedia dello yoga, Stefano Piano, Promolibri Magnanelli
  • Glossario sanscrito, Gruppo Kevala, Asram Vidya
  • Miti e dèi dell’India, Alain Daniélou, Rizzoli
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Letture e spunti Maestri

Ascoltare veramente

Questo mese, nei nostri incontri, dopo esserci immersi nel silenzio, abbiamo ascoltato le parole di un grande filosofo, un ricercatore spirituale che ha sempre rifiutato il ruolo di maestro, ribadendo che la verità non può essere trasmessa a parole, ma solo scoperta in se stessi. Sono parole che invitano il ricercatore a liberarsi da ogni strada già tracciata, dal passato, dai dogmi, dalle ideologie, guardando la realtà senza alcun condizionamento.

Saper ascoltare

Vi siete mai seduti in silenzio senza fermare l’attenzione su una cosa qualsiasi, senza fare il minimo sforzo per concentrarvi, con una mente davvero calma? Se lo fate, potete ascoltare i rumori lontani e quelli vicinissimi a voi: siete in contatto coi suoni. Allora state veramente ascoltando. La vostra mente non si limita a funzionare attraverso un solo insufficiente canale. Quando ascoltate in questo modo, con grande tranquillità, senza sforzo, scoprite che dentro di voi avviene un cambiamento straordinario, un cambiamento che non dipende dalla vostra volontà e che si produce senza che voi lo chiediate; è un cambiamento che porta con sé l’immensa bellezza di una percezione profonda.

Da Il libro della vita: Meditazioni quotidiane di Juddu Krishnamurti

Sedersi in silenzio senza sforzo: sembra facile, ma solo in apparenza. Poniamo che il meditante si sieda a terra, assumendo una posizione che inviti alla distensione della colonna vertebrale. A volte è sufficiente questo a generare sforzo: articolazioni rigide, muscolatura dolorante e subito appare chiaro che quello stare seduti calmi e rilassati, come nelle tante immagini pubblicitarie che occhieggiano in ogni dove, è più una fantasia che una realtà sperimentabile nell’immediato. Un corpo tranquillo, vacante, richiede una preparazione, un lavoro, un impegno.

Una mente tranquilla è altrettanto spesso un miraggio. Si prende la risoluzione di rimanere nel puro ascolto di ciò che raggiunge i padiglioni auricolari e, qualche istante dopo, si è già impegnati a stilare la lista della spesa, a ripercorrere mentalmente un appuntamento di lavoro, a programmare il tagliando dell’auto.

Ascoltare senza schermi

Come ascoltate? Ascoltate attraverso le vostre proiezioni, le vostre ambizioni, i desideri, le paure, le angosce? Ascoltate solo quello che volete sentire, solo quello che vi soddisfa o che vi lusinga? Ascoltate solo quello che vi conforta e che attenua momentaneamente la vostra sofferenza? Se ascoltate attraverso lo schermo dei vostri desideri è ovvio che state ascoltando solo la vostra voce: state ascoltando solo i vostri desideri. Ma esiste un altro modo di ascoltare? Non è forse importante scoprire come si possa ascoltare, non solo quello che dicono gli altri, ma qualunque cosa: il rumore della strada, il cinguettio degli uccelli, lo sferragliare del tram, il fragore delle onde, la voce di vostro marito o di vostra moglie o quella dei vostri amici, il pianto di un bambino? Ascoltare diventa importante quando smettiamo di proiettare i nostri desideri. Possiamo mettere da parte tutti gli schermi che ci impediscono di ascoltare veramente?

Da Il libro della vita: Meditazioni quotidiane di Juddu Krishnamurti

Probabilmente di primo acchito ci viene da pensare che ascoltare solo se stessi sia tipico di persone vanesie, qualcosa che non ci riguarda in prima persona. Ma un minimo di riflessione più accurata ci porterà a prendere atto di quante volte non siamo davvero presenti, totalmente attenti, a quanto gli altri o l’ambiente di dicano. Anche nel dialogo siamo spesso impegnati a preparare la battuta di rimando al nostro interlocutore piuttosto che a lasciarci permeare da quanto ci viene comunicato. A volte si tratta di strategie di sopravvivenza, come quando ci relazioniamo con persone chiaramente logorroiche, ma spesso questo accade anche nell’ambito dei rapporti più intimi, svuotandoli di valore e condannandoli lentamente ma inesorabilmente al disseccamento.

Questo ascolto minato dall’ego è una delle tante facce del nostro costante vivere nella pretesa: pretesa di essere ascoltati, di essere amati, di essere rispettati, di essere riconosciuti.

Pretesa di essere, paura di non essere.

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Yogaterapia

Cervicale: strenua difesa

“Si considera che vi sono tre luoghi dove la prensione umana è marcata: le mani, i piedi e la testa, ovvero gli organi di senso. (…) Col viso ed i sensi ci si difende, con le tensioni della bocca, della mascella si aggredisce, con gli altri sensi, ugualmente, si è aggrediti da ciò che si vede, da ciò che si sente. (…) Lo yoga del Kaśmīr mette l’accento sulla profonda distensione dei cinque sensi: occhi, narici, orecchie, bocca, e ugualmente le mani. Molte pose stimolano l’opposizione pollice-indice per ridurre in noi la prensione. C’è anche tutto il lavoro del non-contatto col suolo, in posizione in piedi, per evitare la sensibilità del piede verso il suolo. Non si cerca appoggio, non ci si àncora, si depone la densità delle anche.(…) Se la regione cervicale è bloccata, sono il viso, la mascella che bisognerà distendere. (…) Esplorando la vacuità delle mani, dei piedi, del viso, si arriva ad una distensione globale del corpo. Attraverso queste tre regioni, si tocca direttamente l’insieme del corpo.”

Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner

Quante volte ci è capitato, camminando per la strada, di incrociare perfetti sconosciuti che, in mezzo ad una fiumana indistinta, ci colpiscono per la loro aria nobile, elegante, fiera. Da dove nasce questo tipo di percezione in noi? Molto probabilmente non in considerazione dell’abito che indossano, ma per il loro portamento, in particolare per la postura della testa. A sua volta quest’ultima dipende dalla posizione del collo. Se il collo è adeguatamente collocato, visto di profilo, l’orecchio si troverà nello spazio compreso tra l’arcata sopracigliare e la punta del naso. Se il lobo dell’orecchio si trova più in basso della punta del naso, vuol dire che la testa si trova in estensione su un collo che sprofonda in avanti rispetto alla regine dorsale.

E la fiumana indistinta che non notiamo? Probabilmente quella è composta da uomini e donne che, in misura maggiore o minore, sono gravate da un peso (traumi, stress, ecc.) che fa slittare il capo in avanti e lo sguardo in basso, appiattendo la fisiologica curva del tratto cervicale. E giust’appunto il dolore al collo è spesso dovuto a una perdita del normale e leggero arco in avanti delle vertebre cervicali.

Alcuni semplici movimenti, eseguiti con costanza e consapevolezza, possono aiutarci a prendere coscienza dei nostri blocchi e delle nostre restrizioni, aiutandoci a recuperare una postura corretta.

Di seguito alcune indicazioni pratiche e simboliche fornite da Gabriella Cella Al-Chamali ne I segreti dello Yoga.

Sedete in una posizione corretta col busto ben diritto.

  1. Eseguite piccoli movimenti del capo su e giù, come per accennare un  “sì”; essi vanno a muovere e riscaldare la prima vertebra cervicale. Se volete verificare il movimento, portando le mani sotto la nuca esercitate una lieve pressione con la punta delle dita, proprio dove sentite un avvallamento.
  2. Piccoli movimenti laterali del capo da destra a sinistra come per accennare un “no” muovono e riscaldano la seconda vertebra cervicale; ne potete verificare il punto facendo scorrere la punta delle dita sull’apofisi che sporge.
  3. Una piccola flessione del capo verso il basso e la spalla destra, poi verso il basso e la spalla sinistra, vanno a muovere e riscaldare la terza vertebra, che potete ancora verificare con la pressione delle vostre dita.
  4. 4) Il viso che ruota fino a portarsi di profilo, a destra e a sinistra reca beneficio e riscalda la quarta vertebra. Ruotando il capo verso destra rilassate il braccio destro per verificare con le dita della mano sinistra il punto, quindi rilassate il braccio sinistro per la verifica con la mano destra.
  5. Spingere il mento in avanti e lievemente verso l’alto in modo che sì allunghi un poco, porta beneficio alla quinta vertebra cervicale.
  6. Spingere ancora fino ad inarcare il collo, volgendo il viso al cielo, porta l’azione riscaldante alla sesta vertebra.
  7. Incurvare il collo per guardare verso il basso, finché il mento va a toccare lo sterno, porta una trazione cervicale che interessa soprattutto la settima vertebra.
    • Con questi semplici movimenti si riscalda il collo e si mantengono flessibili tutte le vertebre cervicali prevenendo l’artrosi o impedendo l’avanzare dei processi artrosici se questi sono già in atto. A livello simbolico i movimenti delle sette vertebre indicano lo scorrere dei giorni in un “ciclo finito”, proprio come indicano i giorni della settimana, le note musicali, i colori fondamentali dello spettro luminoso e le costellazioni.
  8. Mantenendo sempre il busto diritto, senza irrigidirlo, ruotate lentamente il capo da un lato e dall’altro, portandone il viso di profilo. Fate che il gesto sia guidato dal respiro lento e profondo. Mantenete gli occhi chiusi affinché siano gli occhi della mente ad osservare il movimento. A livello simbolico questo è il gesto di Brahma Signore dell’inizio, che viene rappresentato con quattro teste ognuna volta verso un punto cardinale. Il suo gesto di rotazione del capo indica la possibilità che hanno gli adepti dello yoga di vedere lontano e chiaro, al di là delle proprie spalle, al di là delle zone oscure e incomprensibili a chi non segue un cammino di consapevolezza. Il gesto va ripetuto più volte, per permettervi di verificare ogni suo ampliamento; quando decidete di tornare al centro, all’immobilità, restate ancora un poco a osservare con gli occhi della mente i due profili del viso, a destra e a sinistra, come se il gesto fosse ancora in atto. In effetti resta ancora un poco l’energia sottile che avete mosso nell’aria. Siate consapevoli dello spazio che il capo occupa, così come deve esserci stata consapevolezza nell’eseguire il gesto.
  9. Inspirate allungando il collo ed espirate lentamente lasciando scendere il capo lateralmente, verso la spalla sinistra. Restate alcuni attimi a sentire la trazione muscolare dall’orecchio destro alla spalla destra, e il rilassamento sul lato sinistro. Poi inspirando riportatevi in posizione diritta ed  espirando lentamente lasciate scendere il capo lateralmente verso la spalla destra. Restate alcuni attimi a sentire la trazione muscolare dall’orecchio sinistro alla spalla sinistra e il rilassamento a destra. Questo è Surya mudra, il gesto del Sole che sorge e tramonta. A livello simbolico indica la possibilità di osservare, attraverso il percorso del Sole che è la fonte primaria di energia, la vita che in un giorno nasce e nello stesso giorno termina.
  10. Fate compiere al capo una completa rotazione sul collo, lentamente seguendo il ritmo del respiro. Inspirando allungate il collo, espirando lasciate scendere la testa giù in avanti, mantenendo le spalle aperte e ferme. Inspirando ruotate il capo fino alla spalla sinistra, espirando lasciatelo scivolare all’indietro fino alla metà della schiena, inspirando ruotatelo fino alla spalla destra ed espirando lasciatelo tornare a pendere davanti. Ripetete tutto in senso opposto: da destra a sinistra. Potete ripetere più volte i movimenti, finché avvertite un piacevole calore al collo e una sensazione di benessere. Questo è Surya Chandra mudra, il gesto del Sole e della Luna.A livello simbolico indica la possibilità di integrazione tra le forze positive e negative, tra la notte e il giorno, il calore e il freddo, tra l’energia maschile rappresentata dal Sole e quella femminile rappresentata dalla Luna.
  11. Portate la mano sinistra sull’orecchio, aperta e ben aderente alla testa, tenendo su il gomito mantenete il capo e il collo diritti. Mentre inspirate, spingete con forza la mano contrastando la spinta con la testa, espirando rilassate la parte. Ripetete l’esercizio per tre volte consecutive a sinistra e poi con le stesse modalità e gli stessi tempi a destra. Questo è Karna Pida mudra, il gesto dell’orecchio e del dolore. A livello simbolico indica la possibilità degli yogin di chiudere l’ascolto laterale, praticamente di ascoltare solo ciò che essi decidono.
  12. Portate le due mani a sostenere il mento. Mantenete il capo ben diritto sul collo, tenete indietro le spalle e inspirando spingete con energia le mani verso l’alto, per allungare il collo, mentre la testa cerca di contrastare il gesto pesando sulle mani e spingendo verso il suolo. Espirando rilassate la parte, Durante la spinta delle mani verso l’alto, dita e palmi si aprono per aumentare la forza dei polsi uniti, mentre nella fase di rilassamento le dita si rilassano toccando il viso. Ripetete l’esercizio per tre volte consecutive. Questo è Kusuma mudra, il gesto del fiore che sboccia e cresce. Simbolicamente rappresenta la possibilità di crescita spirituale: nella gola è collocato il Chakra Vishuddha, il “purissimo” – “l’etereo”, così come indica il suo nome sanscrito, ed è appunto deputato a governare la crescita nel senso più profondo del termine. Ricordate che Vishuddha nel corpo fisico governa la funzione delle ghiandole tiroidee, che influenzano la crescita corporea e lo sviluppo cerebrale, regolando la distribuzione di calcio e fosforo nelle ossa. La divinità femminile raffigurata a questo livello è Shakini, che siede su di un trono formato da ossa, a indicare il suo completo controllo sul corpo umano, partendo proprio dall’osso che è la sua parte più profonda.

Sul piano fisico i movimenti sopra descritti prevengono le forme artrosiche del tratto cervicale ed aiutano coloro che hanno già in atto tali problemi. In casi di discopatie cervicali, sono molto importanti i due ultimi, orecchio e dolore e gesto del fiore, vanno comunque sempre evitati invece quelli che portano dolore, nausea o capogiro. È importante perciò provare a eseguirli tutti quanti, per poter trovare i più adatti ad ogni caso specifico, e ripeterli giornalmente.

Tutti gli esercizi proposti si possono eseguire anche stando seduti sul bordo del letto o su di una sedia, purché il busto venga mantenuto diritto.

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Maestri Yoga & Meditazione

L’insegnante di Yoga

Due anni complessi quelli appena trascorsi, ed il futuro non ha nubi meno fosche all’orizzonte. Questa breve premessa è forse già da sola sufficiente a spiegare perché alcuni esseri umani, ed io fra questi, si trovino ad affrontare resistenze nel corpo e nella mente sconosciute fino a qualche tempo fa. Certo, il tempo scorre ed il processo naturale d’invecchiamento fa il suo corso, ma per alcuni Crono sembra presentarsi come elegante galantuomo, per altri come arrogante macellaio.

Come reagiamo di fronte ad un’immagine di noi stessi in cui non ci riconosciamo? Come facciamo pace con un corpo che non risponde secondo gli standard (nostri o della società)? Come accettiamo la mente che come un tarlo scava facendo dell’autocritica uno strumento di tortura?

La tentazione di lasciarsi andare all’autocommiserazione sa diventare davvero pericolosa e pervasiva e, accompagnandosi alla mancanza d’amore per sé, rischia di trasformarsi in autolesionismo.

Come in molti momenti difficili o bui, accade a volte che la magia di un incontro si materializzi. Per me è la voce di un Maestro, l’eco di una Tradizione, il dono della Grazia.

Un insegnante di yoga è qualcuno che ha studiato con intensità i suoi propri blocchi e limiti. Ha riconosciuto che i suoi blocchi e limiti provengono sempre da una rappresentazione di se stesso. Ha visto che tutte le critiche che ha verso gli altri e verso se stesso vengono sempre dall’immagine che ha di se stesso. Si è reso conto che tutte le sue sofferenze vengono sempre da se stesso, mai dall’esterno, e che l’esterno lo riconduce al suo proprio blocco. Si è reso conto che se non ha questa immagine interiore, nessun avvenimento esterno può aggredirlo. È il cuore dell’insegnamento dello yoga.

In seguito, lo yoga trasmette questa visione, mettendo di nuovo in questione sensorialmente i limiti del corpo, affinché il corpo divenga aperto, sensibile; affinché l’esterno divenga l’interno e che non si possa più essere aggrediti. Come nelle arti marziali quando si riceve un colpo: viene assorbito. Lo yoga insegna ad assorbire la vita senza resistere. Occorre avere la convinzione profonda che ogni problematica esteriore è la mia problematica. Non viene mai dall’esterno.

L’insegnante è colui che ha vissuto e visto ciò in numerosi elementi della sua vita e che potrà aiutare l’allievo a vivere questa trasformazione. Più l’insegnante ha avuto dei problemi, più è stato traumatizzato, e più avrà una qualità terapeutica funzionale, perché sarà passato attraverso gli stessi handicap dell’allievo.

Allo stesso modo, più il corpo dell’insegnante è un corpo difficile, più egli sarà un buon insegnante, perché troverà nell’allievo le stesse difficoltà e potrà aiutarlo. Chi ha un corpo facile, che non ha mai sentito un blocco, che ha una psiche assai chiara, che è nato in maniera chiara, avrà una maggiore difficoltà a trovare la pedagogia necessaria all’allievo.

L’insegnante di yoga è colui che ha anzitutto un ascolto di se stesso. In seguito lo traspone agli allievi. È per questo che non si dovrebbero mai accettare coloro che vogliono apprendere questo approccio per insegnarlo, perché arrivano con un’intenzione. Non vengono per ascoltare, ma per un mestiere. Normalmente, la persona viene per passione, per scoprire come ascoltare la sua problematica, il suo corpo, la sua vita affettiva. Eventualmente, questo ascolto si trasmetterà più tardi a chi gli sta intorno nella forma di un insegnamento. È un “brutto segno aver l’idea di insegnare quando non si è nemmeno iniziato ad ascoltarsi. Generalmente, è qualcuno che non avrà la capacità di essere un insegnante funzionale.

Una disciplina deve essere intrapresa per amore e non per interesse.

In seguito, la funzionalità si mette in atto. È la stessa cosa per la musica o per la danza. Chi vuole imparare il violino per diventare professore di violino, non sarà mai un buon violinista. Si pratica il violino per amore; in seguito eventualmente si trasmette la pedagogia che si è scoperto.

Si dovrebbero accettare quelli che vogliono impararlo per scoprire cosa c’è di bloccato, di limitato in loro stessi. Eventualmente, più tardi, la vita farà sì che queste persone trasmetteranno questo stesso orientamento. Questo non ha mai fatto parte di un progetto. È per questo che non vi sono mai formazione e insegnamento di yoga possibili, né una progressione. Non si possono formare degli insegnanti. Si possono unicamente formare persone che ascoltano e stimolare in loro l’umiltà per mettersi all’ascolto. Ma chi vuole impararlo per insegnare farebbe meglio a rivolgersi ad un altro sistema di yoga. Il corpus dello śivaismo del Kaśmīr non ha posto per il minimo arrivismo, per la minima appropriazione, per la minima professionalizzazione.”

Passi da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner