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Letture e spunti Mantra Yoga & Meditazione

Asato mā: dal non essere all’essere

Nella Brhadāranyaka-upanisad si trova un magnifico auspicio, profondamente radicato nelle menti e nei cuori dei maestri del Vedānta, ossia la parte conclusiva dei Veda.

Colui che conosce il fondamento del sāman (forza vitale) ha salde radici. Il fondamento sāman è la parola: fondandosi infatti sulla parola il soffio diventa canto. […]

Brhadāranyaka-upanisad 1.3.27

Ora segue la recitazione delle formule purificatorie. Il prastotar (sacerdote) deve intonare il sāman. Quando il sacerdote intona, canta questi versi:

om asato mā sadgamaya [conducimi dal non essere all’essere]
tamaso mā jyotirgamaya [conducimi dalle tenebre alla luce]
mrtyormā amrtam gamaya [conducimi dalla morte all’immortalità]
om śāntih śāntih śāntih [om, pace (in me), pace (in natura), pace (nelle forze divine)]

Brhadāranyaka-upanisad 1.3.28

Nel Vedānta, l’essere è strettamente associato al concetto di Brahman, che rappresenta l’Essere puro e assoluto. Brahman è la realtà ultima, infinita e onnipervadente, da cui tutto emana e in cui tutto ritorna. È descritto come eterno, immutabile e privo di attributi specifici (nirguna), ma può anche essere concepito con attributi (saguna) per facilitare la comprensione umana. Secondo il Vedānta, l’essere individuale (ātman) è identico a Brahman. Questa identità è espressa nella famosa formula “Tat Tvam Asi” (Tu sei Quello), che sottolinea l’unità tra l’io individuale e l’Essere universale, sintetizzando l’intera dottrina advaita. La realizzazione di questa unità è l’obiettivo ultimo della pratica spirituale nel Vedānta, portando alla liberazione (moksha) dall’illusione della separazione e dalla sofferenza.

La salvezza, nella speculazione indiana, diventa quindi l’emancipazione dal samsāra (catena delle rinascite) e la fusione con il Brahman. Mentre per l’occidentale l’idea di una rinascita sulla terra potrebbe sembrare perfino desiderabile, nelle dottrine metafisiche indiane, al contrario, il timore di rimanere intrappolati in questo ciclo doloroso di morti e rinascite è visto come una condanna cui sfuggire.

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Mantra Storie, racconti e poesie

Maha mṛtyunjaya mantra: il mantra della grande vittoria sulla morte

ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम्
उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्


Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhim puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt

Rg-Veda (VII, 59,12)
Preghiamo il Signore dei tre spazi, che si trova ovunque come una fragranza e ci nutre. Possa egli liberarci dalla paura della morte, come il frutto maturo che si stacca dalla pianta (senza dolore), e farci acquisire il senso dell’immortalità. 

Oppure:

Veneriamo il Signore dai tre occhi profumato, che dà la forza/incrementa la prosperità; come un melone (maturo), dai legami della morte possa (io) essere liberato/staccato, ma non dall'immortalità. 

O, nell’interpretazione del Dalai Lama:

Prego l'Essere Divino che si rivela nel profumo del fiore della vita e che nutre in eterno la pianta della vita. Come un bravo giardiniere che coglie con abilità il frutto maturo, mi liberi da ogni paura a livello fisico, psichico e spirituale. Che l'imperituro Dio abiti in me, mi liberi da morte, decadimento e malattia. Che mi conduca al Regno Divino e trasformi la mia morte in Vita Eterna. 

tryambakaṃ: Signore dai tre occhi (e quindi tre spazi: esterno, interiore, del sé), epiteto di Rudra Shiva
yajāmahe: adorare, pregare
sugandhiṃ: fragranza
puṣṭivardhanam: sostiene e nutre
urvārukam: frutto (cocomero, melone)
iva: come
bandhanān: schiavitù, legame
mṛtyor: morte
mukṣīya: liberare
māmṛtāt: non morte, immortalità

Il Tryambaka Mantra è noto anche come Maha Mrytyunjaya Mantra perché aiuta chi lo recita a superare la paura della morte, ma è anche conosciuto come Markandeya Mantra dal nome del suo rishi, cioè di colui che, secondo la tradizione, lo ricevette e lo recitò per primo. È considerato secondo per importanza solo al Gayatri Mantra.

Si tratta di un mantra curativo e nutriente. La sua vibrazione ci collega al guaritore interiore e rafforza la volontà, il coraggio e la determinazione, risvegliando la forza terapeutica più intima. Conseguentemente risulta un valido supporto durante l’assunzione di medicinali, erbe curative, cibo, in quanto ne rafforza gli effetti.

Shiva stesso nel Netra Tantra parlando con la sua sposa Parvati, cita questo mantra, che donerebbe la capacità di raggiungere la libertà ed eliminare qualsiasi forma di sofferenza in quanto distruttore di tutte le malattie e fonte di salute, benessere e longevità, nonché di protezione a livello fisico e mentale.

L’immortalità cui si fa riferimento non è da intendere, ovviamente, come annullamento della morte, ma come consapevolezza che il proprio Sé è imperituro. Anche Patanjali, quando enuncia i klesha (afflizioni) include tra essi anche abhinivesha (sete di esistenza, paura della morte) affermando: “L’attaccamento alla vita è la più sottile delle sofferenze. Lo si ritrova perfino nel saggio” (YS. II,9).

Il miglior momento per recitarlo è di sera, infatti il momento in cui il giorno si trasforma in notte può simboleggiare il passaggio dalla vita alla morte.

Forse può risultare curioso sapere che la tradizione popolare ne suggerisce la ripetizione nel giorno del compleanno per almeno 50.000 volte; questo, congiuntamente ad un’offerta ai poveri, porterà salute, pace, prosperità e moksha, la liberazione. In India si usa recitare il Tryambaka mantra quando un bambino raggiunge il suo 1° compleanno, proprio per augurargli una vita lunga, senza malattie e dedita alla spiritualità.

La leggenda di Markandeya racconta di un uomo saggio di nome Mrikandu e di sua moglie Marudvati che vivevano in santità, praticando meditazioni e rituali con umiltà e devozione. Sebbene avessero raggiunto una grande saggezza e conoscenza spirituale, non avevano figli. Durante una meditazione eseguita proprio con l’intenzione di veder esaudito questo loro desiderio, ebbero l’esperienza di una visita da parte del divino Shiva in persona che offrì loro di scegliere tra un figlio virtuoso e pio che sarebbe vissuto solo 16 anni e un figlio ottuso e malizioso che sarebbe vissuto fino a 100 anni. Come previsto da Shiva, essi scelsero il figlio divino e quando nacque gli diedero nome Markandeya. Questa coppia, molto avanzata spiritualmente, aveva molto da insegnare al figlio, compreso il Gayatri mantra e la puja (cerimonia rituale) a Shiva che egli eseguiva ogni giorno con grande devozione. Nel corso dei suoi primi 15 anni, gli diedero tutti gli strumenti necessari per raggiungere la conoscenza spirituale, ma non gli rivelarono mai la brevità della sua vita. Il giorno del suo 16° compleanno, Markandeya finì la sua meditazione su Gayatri e incominciò come al solito la puja. A quel punto sentì che il prana cominciava a lasciare il suo corpo e capì immediatamente che stava per morire. Pieno di paura e di dolore, pensò a Shiva, ai suoi genitori e abbracciò lo Shivalinga, il simbolo dell’energia e della forma di Shiva recitando il Tryambaka Mantra. Yama dio della morte, fece scattare il suo cappio intorno al collo del giovane saggio, che circondava anche il lingam. Adirato, Shiva emerse dal lingam, attaccando ed uccidendo Yama per salvare il suo devoto. Successivamente Shiva, su richiesta dei deva, resuscitò Yama, a condizione che Markandeya rimanesse sedicenne per sempre. Ancor oggi nei testi classici, si fa riferimento a Markandeya come ad uno dei maestri sempre vivi che dimorano tra le cime dell’Himalaya.

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Mantra Musica & Percussioni

Possa esserci…

Sarveśām Svastir Bhavatu
Sarveśām Sāntir Bhavatu
Sarveśām Pūrnam Bhavatu 
Sarveśām Mangalam Bhavatu
Sarve Bhavantu Sukhinaha
Sarve Santu nirāmayaha 
Sarve Badrāri Pasyantu 
Mā Kascidh-dhuhkha Bhāga-Bhavet
Om śānti śānti śānti

Possa esserci benessere/prosperità in tutti
Possa esserci pace in tutti
Possa esserci pienezza/completezza in tutti
Possa esserci successo spirituale in tutti
Possano tutti essere prosperi e felici
Possano tutti essere liberi dalla malattia
Possano tutti vedere ciò che è spiritualmente edificante
Che nessuno soffra
Om pace pace pace

Si ritiene che l’origine di questo mantra provenga dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, pur non nella sua forma attuale. Si tratta di un’invocazione di armonia e benedizioni per tutta la creazione (Lokakṣema).

Inviare auguri di bene, abbracciare virtualmente ogni creatura, accarezzare l’anima del mondo apparentemente scissa in innumerevoli individualità, ha il potere di ampliare il cuore, scaldarlo e ammorbidirlo.

Il canto del mantra e la vibrazione che esso produce diventano strumenti di pace, di fratellanza viva e pulsante, che annientano ogni sentimento di invidia e di gelosia.

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Letture e spunti Mantra

La pienezza al di là da ogni dualità

oṁ pūrṇamadaḥ pūrṇamidaṁ pūrṇāt pūrṇamudacyate
pūrṇasya pūrṇamādāya pūrṇamevāvaśiṣyate
oṁ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ

Īśa Upaniṣad

Questa è l’invocazione con cui inizia l’Īśa Upaniṣad, che mette in evidenza due concetti fondamentali della tematica Vedānta: Quello e Questo. l’Īśa è riconosciuta come una delle Upaniṣad maggiori più antiche. Appartiene al capitolo XIV dello Yajur Veda “bianco” e rientra nella parte Mantra (rituale) del medesimo Veda. La sua datazione può essere fatta risalire al 700 a.C. Una possibile traduzione dell’invocazione sopra citata potrebbe essere la seguente:

Om!
Quello è Pienezza.
Questo è Pienezza.
La Pienezza nasce dalla sua Pienezza:
Tutto ciò che esiste è Pienezza.
Om! Pace, Pace, Pace.

Om, la vibrazione cosmica, è il mantra di Brahman, l’Assoluto, è il suono per eccellenza e saperlo far risuonare significa entrare in perfetta sintonia con Brahman.

Quello (adaḥ) si riferisce alla Realtà metafisica ultima, assoluta, al Brahman, il quale è al di la del tempo-spazio-causalità, sempre identico a se stesso. Brahman sfugge a ogni tentativo di definizione intellettuale, non rientra in alcuna categoria. La sua incondizionatezza non è minimamente toccata dal mondo dei nomi e delle forme che rappresentano solo ombre sullo schermo inqualificato. Brahman, per la sua intrinseca natura, rimane sempre Pienezza e Pace profonda, condizioni del vero Essere che non nasce e non muore; in Lui esistono tutte le infinite possibilità.

Questo (idaṁ) si riferisce a ciò che chiamiamo mondo manifesto, di cui l’uomo è parte integrante, caratterizzato dalle sei qualità: emergenza, esistenza empirica, crescita, maturità, malattia o declino e morte (considerate dal punto di vista empirico). Le innumerevoli forme universali (riflesso del Brahman), a qualunque dimensione possano appartenere, sono idee-fenomeni che nascono, crescono e svaniscono; ma l’Idea-essenza rimane Pienezza. Questo, l’apparenza fenomenica, non è pura illusione o allucinazione, come non è illusione o allucinazione il sogno notturno del dormiente; è solo quando lo confrontiamo con l’Incondizionato che diventa privo di qualsiasi valore. L’angoscia e l’affanno sopravvengono quando l’essere umano si identifica con le forme e, per ignoranza metafisica, tenta di trattenerle, di eternare ciò che non può mai essere eterno poichè l’intrinseca natura degli oggetti è caratterizzata dall’instabilità.

Nel considerare la manifestazione, si può dire che essa è pervasa da tre aspetti: Esistenza (sat), Coscienza (cit) e Beatitudine (ananda). In altre parole: vita, coscienza e amore. Brahman dimorante nel cuore di ogni individuo è chiamato atman, il Sé, il Testimone. La coscienza individuale che comprende se stessa come Pienezza assoluta non potrà più modificarsi, né identificarsi con ciò che non è.

La Īśa Upaniṣad affronta il fondamento della speculazione indiana, l’aspetto cioè della dualità-polarità. Tutte le dualità sono limitazioni e prigioni; esse non sono né reali né non-reali, dipende dal punto di vista da cui ci si pone. Di là da ogni dualità esiste l’Unità e dietro questa il sostrato da cui emerge l’Uno ontologico.

Fonte: CINQUE UPANISAD Isa – Kaivalya – Sarvasàra – Amrtabindu – Sira, Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael, Edizioni Asram Vidya

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Mantra Pranayama Storie, racconti e poesie

Gayatri mantra, stimolo per la mente

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt

Rg-veda 3, 62, 10

Probabilmente nessuna traduzione può rendere giustizia dei molteplici significati e dell’eco profonda che risuona nel cuore di uno hindu all’ascolto di questo mantra, ma una possibile lettura potrebbe essere la seguente:

“Meditiamo quella desiderabile gloria di Savitur, ch'egli stimoli le nostre menti”.

O anche:

“Noi meditiamo (dhīmahī) sulla gloria di Colui (Savitur) che ha creato l'universo (Bhūr: terra o piano fisico, spazio esterno o Bhaya Akasha; Bhuvah: cielo o piano astrale, spazio interno o Antarakasha; Svah: Cosmo Infinito o piano celeste, spazio del Sé o Cidakasha)
Colui che deve essere adorato (varenyam)
Colui che è l'incarnazione (devasya: del divino) della luce e rimuove i peccati e l’ignoranza (bhargo)
Che Egli possa illuminare (prachodayāt) il nostro (nah) intelletto (dhyo)”

Savitur, I’”Impulsore” I’”Incitatore”, rappresenta in questo conteso il nome del Sole in quanto simbolo del Brahman che sostiene e vivifica l’universo. 

Dal nome Savitur la Gayatri è anche detta Sāvitrī ed è considerata come il più sacro di tutti i mantra vedici. Contiene infatti, nella sua interezza, l’essenza di tutti i Veda, ossia i testi sacri considerati di origine divina e trasmessi direttamente agli antichi veggenti (rsi). I Veda sono costituiti da 4 raccolte:

  • Rg-veda, (delle strofe laudative),
  • Sāma-veda (dei canti rituali),
  • Yajur-veda (delle formule sacrificali) e
  • Atharva-veda (dei sacerdoti del fuoco con funzioni di interpreti di riti magici).

Anche Krishna nella Gita dice: “Io sono il sacro Gayatri” (Bhagavad Gita, X. 35).

Ogni hindu riceve la Gayatri durante la cerimonia iniziatica (upanayana) che lo fa diventare uno dvija, “due volte nato” e a partire da quel momento la sua ripetizione fa parte dei suoi più sacri doveri quotidiani, momento essenziale della samdhyā (crepuscolo del mattino e della sera, propizio alla preghiera ed alla meditazione) durante la quale viene utilizzata sia nel japa (preghiera mormorata o mentale) sia nel prānāyāma.

La Gayatri viene visualizzata:

  • all’alba (momento in cui prevale la qualità sattvica) come la Dea Vāc (la Parola),
  • a mezzogiorno (prevalenza rajasica) come Sāvitrī (divinità che presiede ai prana),
  • al tramonto (qualità tamasica) come Sarasvatī (parola non detta, fiume sotterraneo che scorre in forma non manifesta).

La Gayatri è divisa in tre parti in cui la prima è costituita dal pranava Om e dalle mahāvyāhrti (grandi invocazioni). Il cantore contempla la gloria della luce che illumina i tre mondi o regioni dell’esperienza.

om bhūr bhuvah svah

La seconda parte rappresenta la gloria, lo splendore e la grazia che emanano da quella luce.

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī

La terza parte è una preghiera per la liberazione finale per mezzo del risveglio dell’intelligenza innata che come luce pervade l’universo.

dhiyo yo nah pracodayāt

È una invocazione universale che non implora misericordia o perdono, ma invoca e chiede un chiaro intelletto, cosicché la verità possa esservi riflessa senza distorsioni o deformazioni.

Nel japa deve essere ripetuta dieci, ventotto o centootto volte, facendola precedere dal pranava e dalle tre mahāvyāhrti, le «grandi acclamazioni» dei tre mondi (“om bhūr bhuvah svah”, cioè “om terra, spazio intermedio, cielo”, rispettivamente stato grossolano, sottile e causale) e facendola seguire ancora dal pranava

Nell’uso per il prānāyāma invece la Gayatri deve essere preceduta dalle sette yāhrti, cioè dalle “acclamazioni” dei sette mondi, precedute ciascuna dal pranava e deve essere poi seguita da un mantra detto śiras o «testa».

Om bhūr (terra)
Om bhuvah (atmosfera)
Om swah (cielo)
Om mahah (grande)
Om janah (che non ha inizio)
Om tapah (che è la luce della Saggezza)
Om satyam (che è Verità)
tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt
āpo (acqua) jyotī (luce) raso (sapore) mrtam brahma bhūr bhuvah svar (cieli luminosi) om (possiamo dunque trovare il divino ovunque intorno a noi: nell'acqua, nell'aria e nel cibo)

Questa formula deve essere mentalmente pronunciata per intero in ciascuno dei tre momenti del prānāyāma

  • mentre si inspira attraverso la narice destra, bisogna concentrarsi sull’ombelico e visualizzarvi Brahmā di colore rosso;
  • trattenendo il respiro, è necessario concentrarsi sul cuore visualizzandovi Visnu di colore blu;
  • infine, espirando attraverso la narice sinistra, l’attenzione va diretta sulla fronte dove di visualizza Śiva di colore bianco. 

Gayatri (triplice inno) è anche il nome che viene applicato a un metro vedico di 24 sillabe (tre volte otto).

La Gayatri è anche venerata come figura divina, madre dei Veda (dodicesimo libro del Devi-Bhagavata Purana) e dei brahmani, Essa personifica l’energia divina, solare, che vivifica l’universo, e il suo corpo è il mantra stesso, protegge tutti coloro che la cantano e, in quanto energia primordiale (Śakti), ha creato i tre Guna, i tre principi fondamentali che reggono le leggi dell’Universo: sattva, rajas e tamas

Il primo si identifica con Vishnu, il secondo con Brahmā e il terzo con Śiva. Gayatri veniva adorata dalle divinità come la Grande Madre.

La leggenda racconta che quando i tre erano ancora fanciulli, Gayatri Devi li mise nella culla dello spazio, Akasha, che era sospesa dalle quattro catene della Sapienza (i quattro Veda) e cantò loro il Sacro Mantra OM per farli addormentare. Dopo di che, avendo visto che i tre figli, posseduti dai tre Guna, stavano dormendo, scomparve. Passò molto tempo, i tre fanciulli si svegliarono, e non vedendo la madre, si misero a piangere. Crebbero e vagarono nel vuoto dello spazio posseduti dai tre Guna e si prefissero lo scopo di ritrovare la Madre. Per fare ciò, si sedettero in meditazione, per lunghi anni e il fuoco della loro austerità cominciò a divampare nell’intero universo. Allora la madre, colta da grande compassione, mise in atto “lila” e decise di apparire loro innanzi e, benché la Sua visione fosse onnipervadente, si manifestò nella Sua forma individuata. Quando i tre dei la videro, furono abbagliati dal Suo fulgore: essa indossava un abito rosso e ghirlande di fiori ornavano il suo collo, il viso splendeva come la luna piena, aveva tre occhi e, al centro della fronte, un punto rosso vermiglio. Le sue molteplici braccia reggevano le armi celesti come il fiore di loto, la sacra conchiglia, un teschio bianco, una corda e altre ancora. Portava bracciali e cavigliere e anelli e gioielli splendenti e vari ornamenti: venne incontro ai suoi figli correndo. Li accolse tra le sue braccia e disse loro: “Oh! Figli Divini, avrei dovuto correre a voi molto tempo addietro, ma volevo che voi guadagnaste il potere della creazione, Preservazione e Dissoluzione attraverso l’austerità, affinché le anime che prendono parte al gioco divino nel Cosmo (Lila), potessero vedere gli ideali celati dietro l’austerità e ne prendessero esempio. Io ero con voi, però non ero visibile poiché abito nel regno della trascendenza. Ora mi compiaccio e vi conferisco il triplice potere: che Brahmā, attraverso le qualità di rajas (passione e attività) crei; che Vishnu attraverso le qualità di sattva (equilibrio), preservi: che Śiva attraverso la qualità di tamas (distruzione) porti la dissoluzione al termine di ogni ciclo cosmico. Rivolgetevi a me durante i momenti di dubbio e io vi sarò di guida.” Detto questo, la Madre Divina scomparve.

Fonti:

  • Enciclopedia dello yoga, Stefano Piano, Promolibri Magnanelli
  • Glossario sanscrito, Gruppo Kevala, Asram Vidya
  • Miti e dèi dell’India, Alain Daniélou, Rizzoli