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Letture e spunti Maestri Pranayama Yoga & Meditazione

Vijñāna Bhairava – Dhāranā 4 – Śloka 27

La quarta delle 112 tecniche che ci propone il Vijñāna Bhairava (per una introduzione al testo leggi qui) evoca la nostra presenza tranquilla, imperturbabile, eterna sullo sfondo di ogni accadimento. Attingere alla pace profonda è non solo possibile, ma anche immediatamente disponibile. Questa straordinaria scoperta si cela dietro ad ogni respiro e alle sue pause.

Ecco alcune traduzioni e relativi commenti.

27. Quando [questa potenza del soffio vitale] espirata è trattenuta o inspirata è trattenuta, alla fine di ciò, essa prende il nome di pacificata; e in virtù di questa potenza, uno risplende pacificato.

Vijnanabhairava. La conoscenza del tremendo – A. Sironi (Curatore) Adelphi, 1989
Commentato come segue: «Quando espirata è trattenuta o inspirata è trattenuta», cioè quando la potenza del soffio vitale, nella forma o nel momento dell’espirazione, è trattenuta fuori, nello dvādaśānta, e nella forma o nel momento dell’inspirazione, è trattenuta dentro, nel cuore.

27. Quando (l’Energia del Respiro) viene mantenuta sia all’esterno che all’interno, alla fine (di questa pratica) lo stato di pace viene rivelato per mezzo di Śakti.

Vijnana Bhairava: The Practice of Centring Awareness – Swami, Lakshman Joo – Indica Books, 2003
Commentato come segue: Questa è una pratica con un piccolo sforzo, ciò che si chiama hatha yoga. Quando l’inspiro entra e raggiunge il cuore, fermati un attimo e portalo fuori. Quando raggiunge dvādaśānta all’esterno, allora fermati. Aspetta. Non riportarlo dentro rapidamente, aspetta. Quando espiri questa energia del respiro, fermala all’esterno per un po’. Non si tratta di fermarla per sempre. Basta fermarla per mezzo minuto o un quarto di minuto. Quello è kumbhaka. Kumbhaka non é fermare il respiro con tutta la forza, ma solo finché si può farlo facilmente. […]
Fallo per sei ore al giorno. Non è una pratica dannosa. Devi trattenerlo solo per dieci secondi all’esterno e dieci secondi all’interno. […]
Alla fine cosa succede? […] È śanta, lo stato di pace, pieno di pace […] assolutamente tranquillo, calmo. […]
Quindi è ānavopāya che diventa śaktopāya, perché finché c’è kumbhaka è ānavopāya […] c’è il funzionamento della mente. […] E quando raggiungi lo stato di Sadāśiva placato, allora è śaktopāya.

27. Quando Śakti sotto forma di espirazione (recitā) viene trattenuta all’esterno (in dvādaśānta), e sotto forma di inalazione (pūritā) viene mantenuta all’interno (in hrt o al centro), quindi alla fine di questa pratica, Śakti è conosciuta come Śanta o tranquillizzata e attraverso Śakti Śanta Bhairava3 è rivelato.

Vijnanabhairava or Divine Consciousness: A Treasury of 112 Types of Yoga – Jaideva Singh
Annotato come segue:
1. Per mezzo della pratica continua di kumbhaka o di ritenzione del respiro nel modo di cui sopra, si sperimenta la tranquillità fisica e mentale e si sviluppa madhya daśa. Il senso di bheda o differenza tra prana e apana scompare. Ecco perché questo prāna śakti è conosciuto come śanta.
2. A causa della scomparsa di bheda o della differenza tra prāna e apāna, Śakti è conosciuta comeŚanta o ciò che in questo contesto significa “sotto”, “cessato”.
3. Bhairava (il sé divino) è chiamato Śanta (pace) perché trascende tutti i limiti del nome e della forma e in Lui non c’è traccia di differenza o dualità. Questa dhāranā è un tipo di ānava upāya.

Oppure, quando il respiro è tutto fuori e fermato da sé, o tutto dentro e fermato – in tale pausa universale, il piccolo io di ognuno svanisce. Questo è difficile solo per l’impuro.

Il libro dei segreti – Osho – Bompiani, 2013
Commentato come segue: […] Il tuo piccolo io è utile solo nella vita quotidiana: in casi d’emergenza non te ne puoi ricordare. La tua identità, il tuo il nome, il conto in banca, il prestigio: tutte queste cose evaporano nel momento in cui la tua auto si sta schiantando contro un’altra; tra un attimo ci sarà solo la morte. In questo istante ci sarà una pausa, perfino per chi è impuro. All’improvviso il respiro si arresta: se riesci a essere consapevole in quell’istante, puoi raggiungere la meta.
Se la tua mente è pura – pura significa che non stai desiderando, bramando, cercando nulla – silentemente pura, innocentemente pura, puoi essere seduto, e all’improvviso il tuo respiro si ferma. Ricorda: il movimento della mente ha bisogno del movimento del respiro.

27. Alla fine dell’espirazione o dell’ inspirazione il movimento si sospende, l’energia si acquieta. In questa pausa l’istante pacificato si rivela.

La via del reale. Yoga tantrico – Ritorno a sé – Nathalie Delay – OM, 2023
Commentato come segue: Morire alla fine di ogni espirazione. Lasciarsi fondere nel Mriposo che la segue e gustare il sapore unico del proprio annientamento. La speranza di ottenere o di trovare qualcosa, ci lascia. La nostra storia evapora. Viviamo un momento di resa totale, dove il tempo scompare. Assolutamente non misurare il tempo di ritenzione, non cercare di allungarlo: sarebbe un attentato a uno spazio dove il tempo non esiste. Lasciar invece dissolvere le nostre intenzioni. La pausa si allunga da sola, senza sforzo. Questo non-tempo è una porta verso l’Essenziale.
Velocemente può emergere il panico davanti alla sensazione di dissoluzione. Fatichiamo a lasciarci andare e non permettiamo che il vuoto si affermi. Ci affrettiamo a riempirlo con la successiva inspirazione. Eppure, nel vuoto che segue l’espirazione si trova una pienezza che nessun oggetto esterno potrà mai offrirci.
Si tratta della pienezza del nostro essere. Quando il bisogno di considerarci come un’entità autonoma scompare, possiamo fondere nella pura presenza e assaporare il nettare del’ unita.
La pausa dell’espirazione è un momento privilegiato per rendersi conto dell’identità illusoria alla quale siamo legati per incomprensione. In quell’arresto di tutte le attività la nostra vera natura risplende, se le lasciamo lo spazio per farlo. […]

Quando il potere del respiro, chiamato śānta o “quiescente/pacifico” (il potere del respiro in pausa che trattiene tutta l’energia di prāna-śakti, la forza vitale) viene trattenuto dopo l’inspirazione o anche dopo l’espirazione, allora alla fine di quel momento di profonda quiete, il Tranquillo si manifesta attraverso quel potere, cioè prāna-śakti. Tranquillo, in questo contesto non duale, può essere interpretato come la nostra stessa calma presenza, sempre lì, sullo sfondo di ogni cosa, in attesa di essere scoperta.

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Letture e spunti Mantra Yoga & Meditazione

Asato mā: dal non essere all’essere

Nella Brhadāranyaka-upanisad si trova un magnifico auspicio, profondamente radicato nelle menti e nei cuori dei maestri del Vedānta, ossia la parte conclusiva dei Veda.

Colui che conosce il fondamento del sāman (forza vitale) ha salde radici. Il fondamento sāman è la parola: fondandosi infatti sulla parola il soffio diventa canto. […]

Brhadāranyaka-upanisad 1.3.27

Ora segue la recitazione delle formule purificatorie. Il prastotar (sacerdote) deve intonare il sāman. Quando il sacerdote intona, canta questi versi:

om asato mā sadgamaya [conducimi dal non essere all’essere]
tamaso mā jyotirgamaya [conducimi dalle tenebre alla luce]
mrtyormā amrtam gamaya [conducimi dalla morte all’immortalità]
om śāntih śāntih śāntih [om, pace (in me), pace (in natura), pace (nelle forze divine)]

Brhadāranyaka-upanisad 1.3.28

Nel Vedānta, l’essere è strettamente associato al concetto di Brahman, che rappresenta l’Essere puro e assoluto. Brahman è la realtà ultima, infinita e onnipervadente, da cui tutto emana e in cui tutto ritorna. È descritto come eterno, immutabile e privo di attributi specifici (nirguna), ma può anche essere concepito con attributi (saguna) per facilitare la comprensione umana. Secondo il Vedānta, l’essere individuale (ātman) è identico a Brahman. Questa identità è espressa nella famosa formula “Tat Tvam Asi” (Tu sei Quello), che sottolinea l’unità tra l’io individuale e l’Essere universale, sintetizzando l’intera dottrina advaita. La realizzazione di questa unità è l’obiettivo ultimo della pratica spirituale nel Vedānta, portando alla liberazione (moksha) dall’illusione della separazione e dalla sofferenza.

La salvezza, nella speculazione indiana, diventa quindi l’emancipazione dal samsāra (catena delle rinascite) e la fusione con il Brahman. Mentre per l’occidentale l’idea di una rinascita sulla terra potrebbe sembrare perfino desiderabile, nelle dottrine metafisiche indiane, al contrario, il timore di rimanere intrappolati in questo ciclo doloroso di morti e rinascite è visto come una condanna cui sfuggire.

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Letture e spunti Maestri Yoga & Meditazione

Vijñāna Bhairava – Dhāranā 3 – Śloka 26

La terza delle 112 tecniche che ci propone il Vijñāna Bhairava (per una introduzione al testo leggi qui) si manifesta quando si è così immersi nel centro energetico che il pensiero discorsivo, il chiacchericcio mentale che ci abita costantemente, finalmente si placa, fino a scomparire. Si è semplicemente presenti in questo spazio centrale aperto e vibrante, senza pensare, in uno stato di sospensione del respiro. Quando l’attenzione si concentra su questo centro e i pensieri (vikalpa) si dissolvono, tutto si sospende, permettendo di percepire la beatitudine (ananda), la realtà più intima di ogni cosa, situata nel punto più profondo e protetto, il centro dell’essere.

Ecco alcune traduzioni e relativi commenti.

26. La potenza propria del soffro vitale più non esce, più non entra, dischiusosi che sia il punto di mezzo, in virtù dell’assenza di ogni pensiero discorsivo. Grazie ad essa si invera la condizione di Bhairava.

Vijnanabhairava. La conoscenza del tremendo – A. Sironi (Curatore) Adelphi, 1989
Commentato come segue: Il kumbhaka o ritenzione dei soffi vitali è il terzo momento del prānāyāma, la regolazione yoghica della respirazione. Lo yogin, ritmando e rallentando il movimento del respiro, compie tre operazioni: inspirazione (pūraka), espirazione (recaka) e ritenzione (kumbhaka).
La respirazione è connessa coi diversi stati mentali ed è quindi uno dei mezzi principali a nostra disposizione per intervenire su di essi: in altre parole, ogni stato di coscienza può essere esperito, conosciuto, penetrato e controllato con una adeguata regolazione della respirazione.
Tale pratica porta ad una costante consapevolezza ed attenzione alle modalità del nostro pensiero e della nostra psiche: alla fine, si ha l’inverarsi dello stato supremo.

26. L’energia del respiro non dovrebbe né uscire né entrare; quando il centro si dischiude con la dissoluzione dei pensieri, allora si raggiunge la natura di Bhairava.

Vijnana Bhairava: The Practice of Centring Awareness – Swami, Lakshman Joo – Indica Books, 2003
Commentato come segue: Quando stabilisci la focalizzazione nella vena centrale (susumnā) […] l’energia del respiro non esce né entra, perché […] questa vena centrale è già mantenuta in un solo punto. […] Questo è śāmbhavopāya […] nessuna recitazione del mantra e nessuna oggettività in quella coscienza. È una consapevolezza spontanea e centrata. Non c’è supporto dei due vuoti, non c’è dualità.

26. Quando lo stato di mezzo si sviluppa per mezzo della dissoluzione di tutti i costrutti di pensiero dicotomizzanti1 prāna-śakti nella forma di espirazione (prāna) non esce dal centro (del corpo) verso dvādaśānta2, né quella śakti sotto forma di inalazione (apāna) entra nel centro da dvādaśānta. In questo modo per mezzo di Bhairavī che si esprime sotto forma di cessazione di prāna (espirazione) e apāna (inalazione), lì emerge lo stato di Bhairava3.

Vijnanabhairava or Divine Consciousness: A Treasury of 112 Types of Yoga – Jaideva Singh
Annotato come segue:
1. In questa dhāranā, prāna (espirazione) e apāna (inalazione) cessano e madhya daśā si sviluppa cioè prānaśakti in susumnā si sviluppa per mezzo di nirvikalpabhāva, cioè con la cessazione di tutti i costrutti di pensiero; quindi viene rivelata la natura di Bhairava.
Sivopādhyāya nel suo commento dice che il nirvikalpabhāva è il risultato di Bhairavī mudrā in cui anche quando i sensi sono aperti verso l’esterno, l’attenzione è rivolta verso l’interno allo spanda interiore o pulsazione della coscienza creativa che è la base e il supporto di tutte le attività mentali e sensuali, quindi tutti i vikalpa o costrutti di pensiero cessano. Il respiro non esce, né entra, e la natura essenziale di Bhairava viene rivelata.
2. Dvādaśānta significa una distanza di 12 dita nello spazio esterno misurata dalla punta del naso.
3. La differenza tra la precedente dhāranā e questa sta nel fatto che mentre nella precedente dhāranā, madhya daśa si sviluppa attraverso la consapevolezza focalizzata delle pause di prāna e apāna , nella presente dhāranā, madhya daśa si sviluppa per mezzo di nirvikalpabhāva. […]

Oppure, ogni volta che l’inspirazione e l’espirazione si fondono, in questo istante tocca il centro privo di energia, pieno di energia.

Il libro dei segreti – Osho – Bompiani, 2013
Commentato come segue: […] Noi siamo divisi in centro e periferia. Il corpo è la periferia; noi conosciamo il corpo, conosciamo la periferia, conosciamo la circonferenza, ma non sappiamo dove sia il centro. Quando l’espirazione si fonde con l’inspirazione, quando diventano tutt’uno, quando non sei in grado di dire se si tratta di un’espirazione o di un’inspirazione, quando è difficile demarcare e definire se il respiro stia entrando oppure uscendo, quando il respiro è penetrato e comincia a uscire, in quell’attimo esiste una fusione: il respiro non esce né entra, è statico.[…] Il punto di fusione tra il respiro che entra e quello che esce è il tuo centro. […] Il respiro va costantemente al centro e ne esce, ma noi non respiriamo mai intensamente, per cui, normalmente, il respiro non tocca mai il nostro centro, non al giorno d’oggi, perlomeno. Ecco perché oggigiorno ci se sente tanto “scentrati”.

Sulla relazione tra respiro e attività del pensiero come conoscere differenziato (vikalpa), possiamo attingere da altre fonti autorevoli che ribadiscono i contenuti del nostro tantra:

Infatti, non essendovi più sorgere di nuovi movimenti respiratori, non può logicamente esservi neppure più molteplicità di conoscere, la quale è generata dalla molteplicità del tempo.

Luce delle sacre scritture (Tantrāloka) di Abhinavagupta, VII, 23 b-24 (a cura di Ranierio Gnoli) – UTET

17. Dalla dilatazione del centro si ha il conseguimento della beatitudine della Coscienza.

L’autocoscienza jivaica astratta dalle proprie sovrapposizioni velanti si fonde nella Coscienza pura di Paramaśiva perdendo per sempre qualsiasi limitazione. Lo yogin deve prima raccogliere la consapevolezza dispersa nella sfera sensoriale, in quella mentale, ecc., poi concentrarla nel punto focale centrale, quindi fissare tale posizione mantenendola scevra da qualsiasi appoggio o riferimento e alimentandola incessantemente fino a che, nel giusto tempo, il suo stesso essere-coscienza si risolve in modo del tutto spontaneo nella infinita spazialità adimensionale della Coscienza di Paramaśiva.

Pratyabhijñāhrdayam di Ksemaraja – Traduzione dal sanscrito, presentazione e note a cura di Kevalasangha

Alcuni “metodi” del Vijñāna Bhairava, come quello qui presentato, sembrano alludere ad esperienze che sorgono spontaneamente sul sentiero della meditazione, dove il respiro si fa sempre più sottile, avvicinandosi al nucleo più intimo del proprio essere, fino a fermarsi spontaneamente, insieme all’ideazione della mente, innescando l’espansione del centro (che denota sia il canale centrale che la consapevolezza-presenza che è il nucleo del proprio essere) e svelando lo “stato di Bhairava”, quest’ultimo essendo uno stato di vuoto profondamente immobile che è paradossalmente riempito con la quieta intensità della pura Presenza.

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Vijñāna Bhairava – Dhāranā 2 – Śloka 25

La seconda delle 112 tecniche che ci propone il Vijñāna Bhairava (per una introduzione al testo leggi qui) ci invita ad assaporare il riposo a pieno, alla fine dell’inspirazione, ed il riposo a vuoto, al termine dell’espirazione. Si tratta di occasioni concrete e sempre disponibili di incontrare la tranquillità. E se l’inspiro crea il mondo e l’espiro lo dissolve, tra i due vi è una pausa che è un vuoto vibrante, pieno di vita sottile, che può apparire come un abisso, ma che è invece l’essenza stessa della Presenza. Si tratta dello sfondo da cui tutto prende origine e in cui tutto si inabissa. E’ il supporto su cui tutto poggia, espressione di pura libertà.

Ecco alcune traduzioni e relativi commenti.

25. Grazie al non ritorno del soffio vitale dai due eteri, fuori e dentro, si manifesta così, o Bhairavī, il corpo di Bhairava, di Bhairavī.

Vijnanabhairava. La conoscenza del tremendo – A. Sironi (Curatore) Adelphi, 1989
Commentato come segue: […] Con l’espressione «fuori e dentro» ci si riferisce rispettivamente alla pausa del prāna nello dvādaśānta, esterno al corpo, e dell’apāna nel cuore, dentro il corpo. Il cuore e lo dvādaśānta sono concepiti come due eteri, spazi vuoti, simili ad un cielo senza macchia.

25. O Bhairavī, focalizzando la propria consapevolezza sui due vuoti (alla fine) del respiro interno ed esterno, così la forma gloriosa di Bhairava viene rivelata attraverso Bhairavī.

Vijnana Bhairava: The Practice of Centring Awareness – Swami, Lakshman Joo – Indica Books, 2003
Commentato come segue: […] Quando si mantiene la consapevolezza ininterrotta in questi due vuoti, internamente ed esternamente (c’è il vuoto interno e quello esterno) [la forma gloriosa di Bhairava viene rivelata]

25. Del respiro (espirazione o prāna) che nasce dall’interno, cioè dal centro del corpo (hrt) non c’è ritorno per una frazione di secondo dal dvādaśānta (una distanza di dodici dita dal naso nello spazio esterno), e del respiro (inspirazione o apāna che nasce da dvādaśānta, cioè dallo spazio esterno, non c’è ritorno per una frazione di secondo dal centro del corpo (hrt).1 Se si fissa la mente costantemente su questi due punti di pausa, si scoprirà che Bhairavī, la forma essenziale di Bhairava, si manifesta in quei due punti.2

Vijnanabhairava or Divine Consciousness: A Treasury of 112 Types of Yoga – Jaideva Singh
Annotato come segue:
1. La pausa di prāna nel dvādaśānta è nota come bahih kumbhaka o pausa esterna. La pausa dell’apāna nel centro interno del corpo è nota come antah kumbhaka o pausa interna. Con l’anusandhāna o consapevolezza unidirezionale di queste due pause, la mente diventa introversa e l’attività sia di prāna che di apāna cessa, e c’è la risalita di madhya daśā, cioè il percorso del madhya nādi o susumnā diventa aperto.
2. Se si osservano mentalmente le due pause di cui sopra, si realizza la natura di Bhairava. Questo è ānava upāya in quanto questo processo coinvolge dhyāna o meditazione sui due kumbhaka o pause di prāna e apāna.

Come il respiro volge dal basso verso l’alto, ed ancora come curva dall’alto verso il basso – tramite entrambe queste svolte, realizza.

Il libro dei segreti – Osho – Bompiani, 2013
Commentato come segue: […] il respiro che entra è la metà di un cerchio, quello che esce è l’altra metà. Perciò comprendi: primo, l’inspirazione e l’espirazione creano un cerchio. Non sono due linee parallele, perché le linee parallele non si incontrano mai. Inoltre, non si tratta di due respiri, ma di uno solo. E’ lo stesso respiro che entra e poi esce, dunque, all’interno, deve esistere un punto di svolta: deve esistere un punto in cui li respiro entrante diventa uscente. […] Se sai guidare un’automobile, sai che ha le marce. Ogni volta che cambi marcia, devi mettere in folle, che non è affatto una marcia. […] Questa “messa in folle” è il punta di svolta […] Allo stesso modo, quando il respiro entra, e poi compie una svolta, è in folle; altrimenti non potrebbe svoltare! Passa per un territorio neutrale. In quel territorio non sei né corpo né anima, né fisico né mente, perché il fisico è una marcia del tuo essere, come pure la mente. Tu continui a passare da una marcia all’altra, ma devi per forza avere una messa in folle in cui non sei né corpo né mente. In quel “folle” semplicemente esisti: sei solo esistenza, pura, semplice, disincarnata, senza mente.

25. Se ci si esercita senza interruzione sulla coppia degli spazi vuoti, interno ed esterno, dei soffi inspirato ed espirato, l’essenza di Bhairava, che non differisce da Bhairavī, si rivela.

La via del reale. Yoga tantrico – Ritorno a sé – Nathalie Delay – OM, 2023
Commentato come segue: […] Assaporare il gusto particolare dell’inspirazione, poi dell’espirazione. Senza sforzo lasciar allungare e approfondire l’espirazione. Alla fine dell’espirazione, senza bloccare, il soffio si sospende naturalmente. Tocchiamo un istante di pura tranquillità.
Il tempo lineare si arresta. Abbiamo la sensazione di fare un salto nell’eternità. Poi l’onda del respiro riprende. Il corpo si riempie, si espande. Ricevere l’inspirazione. Quando termina, sentire la pienezza, senza attaccamento. Lasciare che l’onda ridiscenda, che il corpo si svuoti. Prendersi il tempo, e poi posarsi nel vuoto che segue, per percepirne il gusto delicato.

Ancora una volta l’invito è a praticare, secondo la propria sensibilità.

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Vijñāna Bhairava – Dhāranā 1 – Śloka 24

Riconoscere che siamo già realizzati, in quanto forma del divino che si manifesta, può sembrarci un obiettivo irraggiungibile e vagamente autoreferenziale. Ma le 112 tecniche che ci propone il Vijñāna Bhairava (per una introduzione al testo leggi qui) ci guidano nello svelamento di questa perfezione nascosta dalla “densità” del reale. Prendiamo in considerazione la prima di queste dhāranā, attingendo a varie traduzioni e commenti.

  1. In alto il soffio ascendente, in basso il soffio discendente. [Il soggetto che] proferisce [è la stessa] Dea, essenziata di emissione. Nel luogo della duplice nascita, si ha, in ragione dell’onnicomprensione, lo stato onnicomprensivo.
Vijnana bhairava. La conoscenza del tremendo – A. Sironi (Curatore) Adelphi, 1989
Commentato come segue: L’emissione (visarga), corrispondente nell’alfabeto sanscrito all’inspirata muta H e qui identificata con la Dea, è il principio che dà origine al movimento respiratorio, costituito dal prāna, il soffio che ascende durante l’espirazione dal cuore allo dvādaśānta, e dall’apāna, il soffio che discende durante l’inspirazione dallo dvādaśānta al cuore.
Il visarga ha, nelle scuole śivaite, molteplici sensi e connotazioni: 1) visarga, metafisicamente, è l’emissione divina, l’atto della creazione; 2) visarga, fisicamente, è l’emissione seminale; 3) visarga, fonicamente, è l’emissione muta H, che simboleggia l’emissione o creazione del tutto.
Con l’espressione “luogo della duplice nascita” ci si riferisce al cuore e allo dvādaśānta, nei quali nascono e si estinguono i due soffi vitali, il prāna e l’apāna.
Nel momento in cui l’un soffo si è estinto e l’altro non è ancora sorto, cioè nel momento iniziale precedente ogni inspirazione ed espirazione, può inverarsi, nello yogin, un’esperienza o stato di coscienza di pienezza, « onnicomprensione», che contiene dentro di sé tutti i successivi movimenti della coscienza.
  1. Bhairava rispose: L’espirazione (prāna) dovrebbe ascendere e l’inspiro (jīva) dovrebbe discendere, (entrambi) formando un visarga (composto da due punti). Il loro stato di pienezza (si trova) fissandoli nei due luoghi di (loro) origine.
Vijnana Bhairava: The Practice of Centring Awareness – Swami, Lakshman Joo – Indica Books, 2003
Commentato come segue: Bhairavasya sthitih syāt: uno diventa uno con Bhairava a causa della Sua pienezza. Questo è collegato con ānavopāya. Non può essere śaktopāya o śāmbhavopāya, è ānavopāya, perché funziona nel campo oggettivo della coscienza. Devi portare il respiro dal cuore a dvādaśānta e riportarlo dal dvādaśānta al cuore nuovamente e recitare prāna e jīva. Recitare prāna significa recitare “sa” nel dvādaśānta esterno e amkāra di “ha” sarà recitato nel cuore. Quando il tuo respiro entra, finirà in “am”, quando lo espelli, finirà nel visarga: “sah” e se ti concentri su questi due punti di partenza, diventerai uno con Bhairava a causa della Sua pienezza. [Questo costituisce il mantra so’ham, “Io sono Lui”.] Questo è ānavopāya.
  1. Bhairava dice:
    Para devi o Śakti Suprema che è della natura di visarga1 continua (incessantemente) a esprimersi verso l’alto (ūrdhve) (dal centro del corpo a dvādaśānta2 o una distanza di dodici dita) sotto forma di espirazione (prāna) e verso il basso (adhah) (da dvādaśānta al centro del corpo) sotto forma di inspirazione (jīva o apāna)3. Con la fissazione costante della mente (bharanāt)4 nei due luoghi della loro origine (vale a dire, centro del corpo nel caso di prāna e dvādaśānta nel caso di apāna), c’è la situazione di pienezza (bharitāsthitih che è lo stato di parāśakti o natura di Bhairava)5.
Vijnanabhairava or Divine Consciousness: A Treasury of 112 Types of Yoga – Jaideva Singh
Annotato come segue:
1. Visargātmā – che è della natura di visarga. La parola visarga significa lasciar andare, proiezione o creazione, cioè chi è creativo. La funzione creativa del Divino include due movimenti: verso l’esterno e verso l’interno o centrifugo e centripeto. Negli esseri viventi, il movimento verso l’esterno o centrifugo è rappresentato dall’espirazione o esalazione; il movimento verso l’interno o centripeto è rappresentato dall’inspirazione o dall’inalazione. Parā o parā devī o Parā śakti è designato come visargātmā, perché è con questo ritmo di movimento centrifugo e centripeto che porta avanti il ​​gioco della vita sia nel macrocosmo che nel microcosmo. Questo movimento è noto come uccāra o spandana o incessante pulsare di Parādevī. In sanscrito, visarga è rappresentato da due punti uno sopra l’altro. Un punto in questo caso è dvadasanta dove termina prana e l’altro è hrt o centro del corpo dove termina apāna. È per questi due punti che Parāśakti è conosciuta anche come visargātmā.
2. Dvādaśānta, che letteralmente significa “fine di dodici”, indica il punto a una distanza di 12 dita dalla punta del naso nello spazio esterno dove termina l’espirazione che nasce dal centro del corpo umano e passa attraverso la gola e il naso. Questo è noto come bāhya dvādaśānta o dvādaśānta esterno.
3. L’apāna o inalazione è chiamata jīva, perché è l’inalazione o il movimento di ritorno del respiro che è responsabile della vita.
4. Bharanāt qui significa tramite osservazione ravvicinata o consapevolezza univoca. Consapevolezza di cosa? Sivopādhyāya nel suo commento chiarisce questo punto nel modo seguente:”Bharanāditi qui significa con un’intenta consapevolezza di ciò che implicitamente è il lampo iniziale sempre risorto della śakti di Bhairava.”
5. La dhāranā o la pratica yogica a cui si fa riferimento in questo verso è la seguente:
Ci sono due punti o poli tra i quali la respirazione continua costantemente. Uno di questi è dvādaśānta nello spazio esterno dove prāna o espirazione finisce e l’altro hrt o il centro all’interno del corpo dove apāna o inspirazione finisce. In ognuno di questi punti, c’è viśrānti o riposo per una frazione di secondo. Il respiro non si ferma effettivamente lì del tutto, ma rimane nella forma di un palpito di śakti in animazione sospesa e poi di nuovo inizia il processo di respirazione. Si dovrebbe contemplare śakti che appare nel periodo di riposo e si dovrebbe rimanerne consapevoli anche mentre inizia il processo di respirazione. Con la pratica costante di questa dhāranā si realizzerà lo stato di pienezza di Bhairava (bharitā sthitih).
Poiché questa pratica è senza alcun supporto di vikalpa, è Śāmbhava upāya.
C’è un’altra importante interpretazione di questa dhāranā. Nell’inspirazione, viene prodotto il suono ha; nell’espirazione, viene prodotto il suono sah; nel punto di giunzione al centro si aggiunge il suono m. Quindi l’intera formula diventa Hamsah. Parādevī continua a suonare questa formula o mantra incessantemente in ogni essere vivente. Hrdaya o il centro è il punto di partenza del suono ha e dvādaśānta è il punto di partenza del suono sah. Contemplando questi due punti, si acquisisce la natura di Bhairava. Questo sarebbe ānava upāya. Sah rappresenta Śiva; ha rappresenta Śakti; m rappresenta nara. Quindi in questa pratica, tutti e tre gli elementi principali della filosofia Trika, vale a dire, Śiva, Śakti e Nara sono inclusi.

O radiosa, questa esperienza può albeggiare tra due respiri. Dopo che il respiro è venuto dentro e appena prima che si rivolga in su – il beneficio.

Il libro dei segreti – Osho – Bompiani, 2013
Commentato come segue: Quando inspiri, osserva. Per un solo istante, per un attimo infinitesimale, non c’è respiro: prima che risalga, prima che fuoriesca. Un respiro entra, poi c’è un punto in cui si arresta. Poi il respiro fuoriesce e allora, per un istante, un attimo infinitesimale, si arresta. Poi di nuovo entra. Prima che il respiro entri, o prima che esca, vi è una frazione minima di tempo in cui non stai respirando. In quell’istante può accadere l’evento trascendente, perché quando non respiri, non sei nel mondo. Lo si deve comprendere profondamente: quando non stai respirando, sei morto; tu esisti, questo è vero, ma come fossi morto. Ma quell’istante è di così breve durata che non lo si nota mai. Per il Tantra ogni respiro che fuoriesce è una morte, e ogni nuovo respiro è una rinascita. Il respiro che entra è una rinascita, quello che fuoriesce è una morte. Il respiro che esce è sinonimo di morte, quello che entra, di vita.
Perciò con ogni respiro muori e rinasci. L’intervallo tra i due è molto breve, ma un’acuta, sincera osservazione e un’attenzione cosciente te lo faranno percepire. Se riesci a percepirlo, dice Shiva: “Il beneficio”. In quel caso non dovrai fare nient’altro: la beatitudine ti avvolge, hai compreso, hai colto l’eterno. Non occorre educare il respiro. Lascia che scorra liberamente. E’ sufficiente una tecnica così semplice per conoscere la verità?
Sembra semplice! Conoscere la verità significa conoscere ciò che non è nato e che non muore mai, conoscere quell’elemento eterno che esiste sempre. Comunemente si conosce il respiro che esce e che entra, mai l’intervallo tra i due. Prova. All’improvviso comprenderai, è possibile: esiste già. Non devi aggiungere nulla a ciò che sei: tutto è già presente, tranne una sottile consapevolezza. Per praticare questa tecnica, per prima cosa diventa consapevole del respiro che entra. Osservalo. Dimentica ogni cosa: osserva solo il respiro che entra. Sentilo, quando tocca le tue narici. Poi lascialo discendere e muoviti con esso in piena coscienza. Non perderlo, mentre discende: scendi con esso. Ricordati solo di non precederlo e di non restare indietro. Devi solo accompagnarlo. Ricordati: muoviti in simultanea! Respiro e coscienza devono diventare un tutt’uno. Quando il respiro entra in te, anche tu dovresti entrare dentro di te, solo così sarà possibile cogliere il punto d’arresto tra i due respiri. Non sarà facile. Entra con il respiro, poi esci con il respiro: dentro-fuori, dentro-fuori. Fu il Buddha, in particolar modo, a usare questo metodo, pertanto nel mondo lo si conosce come un metodo buddista. Nella terminologia buddista è noto come anapanasati yoga.

L’energia suprema, la cui natura è creare, si manifesta nella respirazione. Mantieni la mente nei due punti di origine dell’inspirazione e dell’espirazione e conosci la pienezza.

La via del reale. Yoga tantrico – Ritorno a sé – Nathalie Delay – OM, 2023

Non rimane che l’invito a praticare, secondo la propria sensibilità.

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Kapalabhati: cranio lucente e disponibilità

Il normale processo respiratorio implica inspirazione attiva ed espirazione passiva. Kapālabhāti, da annoverarsi tra gli śatkarman, inverte tale processo, richiedendo una espirazione attiva con la quale l’addome viene ritratto in modo deciso ma senza tensioni ed una inspirazione che è un ritorno passivo e spontaneo della parete addominale. Torace, spalle e glutei rimangono totalmente non partecipanti. Non si tratta di una passività meccanica, ma piuttosto della passività di ogni dinamismo intenzionale.

Kapālabhāti, insieme a bhastrika, è considerato l’esercizio più importante di purificazione. Jean Klein lo vedeva come pratica essenziale della disponibilità.
Durante i primi anni, questa espulsione secca dell’aria si pratica con la base della cintura addominale, come se si volesse disegnare un punto su una i, due centimetri sotto l’ombelico […] occorre essere in grado di accompagnare il movimento con la mascella, come una vacca che rumina. […]
Dopo alcuni anni, si innalzerà la localizzazione della cintura addominale verso il diaframma. Questo gigantesco muscolo si svelerà poco a poco, prima centralmente e più tardi lateralmente. L’esercizio si estenderà gradualmente nello spazio […]
Durante kapālabhāti bisogna muovere il diaframma ed esplorarne la sensibilità perché conservi la sua elasticità quali che siano la posizione e la zona compressa. Stirato, torto, tutto lo spessore del muscolo deve diventare vivente. Quando il diaframma è elastico, il corpo è in buona salute e l’energia è equilibrata. Quando è troppo teso o fiacco, è inevitabile una forma di debolezza energetica. La pratica intensa di kapālabhāti irrora il diaframma, elimina la cattiva digestione e favorisce l’assimilazione degli alimenti. […]

da Yoga tantrico. Asana e pranayama del Kashmir di Éric Baret

Come apprendere la pratica? Il suggerimento è di iniziare con tre serie di undici espulsioni, poi tre serie di ventidue, poi tre serie di trentatré, fino a undici volte undici (centoventuno). Poi il ritmo si farà da sé e non sarà più necessario contare.

Kapālabhāti deve essere praticato almeno una ventina di minuti. In seguito, se la vita ce ne dà lo spazio, si imporranno tempi più tradizionali. Il tempo che Jean Klein considerava funzionale per ripulire le scorie di molti dei suoi allievi era di un’ora e mezza. […] Praticato tutti i giorni per mezz’ora, kapālabhāti ha un effetto psicologico profondo. Non ce se ne accorge per forza subito, ma calma la psiche, il sonno si riduce. […] Vero detergente di vecchie memorie, kapālabhāti elimina le scorie del passato senza richiedere la loro riattivazione psichica.

da Yoga tantrico. Asana e pranayama del Kashmir di Éric Baret

Gli aspetti tecnici essenziali della pratica sono:

  • lo scioglimento definito della cintura addominale
  • la vacuità della bocca, con la lingua deposta sugli incisivi inferiori
  • la distensione della mascella
  • il movimento di espulsione dell’aria secco, libero d’intenzione e di volume

L’ordine degli elementi cui dare priorità sarà il seguente:

  • la secchezza e la precisione (durante i primi anni)
  • la potenza (in seguito)
  • la rapidità (due espulsioni al secondo), sempre conservando la leggerezza, finezza e potenza

Occorre la stessa potenza per la prima espulsione e per l’ultima. […] Non c’è cedimento del ritmo. Non bisogna mai spingersi al massimo […] Poiché non si raggiunge mai il proprio limite, esso si estende. […] Un’espirazione insistita deprime il cuore, una respirazione fluente lo rinforza; un’inspirazione troppo tonica, intenzionale, scuote il sistema nervoso, un’inspirazione organica, costante, fluente, lo equilibra. Tutto quel che oltrepassa un limite è eccesso. Ci si posa sul ritmo. Si pigia un bottone e c’è un inizio, si pigia di nuovo, c’è un arresto, non c’è niente da fare. Restare tranquilli.

da Yoga tantrico. Asana e pranayama del Kashmir di Éric Baret

In seguito si potrà anche esplorare la pratica di kapālabhāti a narici alternate e la sua esecuzione durante le posture (asana) classiche: pinze in avanti, posizioni all’indietro, torsioni, allungamenti e posizioni capovolte.

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Letture e spunti Maestri

L’arte di morire

Un titolo che invita agli scongiuri, alla reazione ironica come meccanismo di difesa, che spaventa forse, perchè il tema, si sà, non è di quelli accattivanti da réclame, non si adatta all’immagine della fotomodella in posizione acrobatica e pacificata in riva al mare.

Migliorarsi, progredire, evolversi, perfezionarsi: ecco i mantra della nostra epoca, figli di una certa cultura New Age che ci rende schiavi di una fantasia e di un mito che ci vogliono in costante competizione con noi stessi e con gli altri, per divenire altro da ciò che siamo. Ma c’è un altro modo di intendere la pratica dello Yoga.

Qual’è la quintessenza dello Yoga del Kashmir che Lei trasmette?
È un’arte tradizionale di morire. Quando la rappresentazione che abbiamo di noi stessi scompare rimane la vita. Lo yoga classico è basato sull’idea della nostra povertà e allora si fanno degli esercizi per arricchirsi, per diventare più spirituali. Nello yoga del Kashmir, invece, si considera che siamo già ricchi e che ogni azione è una manifestazione di questa ricchezza. In quest’ottica, la ricchezza si trova dietro di me, non davanti. Quando le nostre proiezioni sulla realtà cadono rimane la vita, lo stupore, la gioia». […] Lo yoga del Kashmir non prevede alcuna nozione di progressione, il fatto di mantenere un poco di più o un poco di meno le posizioni non ci riguarda. Ma quando ci si è resi conto che non c’è niente da acquisire, niente da difendere, niente di cui appropriarsi, scopriamo di avere un sacco di tempo libero e a quel punto l’esplorazione della posa può prolungarsi. In quest’arte, il nostro strumento di esplorazione è la sensibilità, non per svilupparla ma per lasciare che muoia. Quando ogni percezione muore nel cuore c’è tranquillità. Questo è il fulcro della pratica. 

Passi da un intervista di Emina Cevro Vukovic a Eric Baret –  da “Yoga Journal”, anno V, n.30, febbraio 2009

Per molti di noi risulta rassicurante il fatto di incrementare il proprio “tesoretto spirituale” accumulando conoscenze, tecniche, seminari, ecc. Non altrettanto scontato è divenire coscienti di come questo meccanismo ci avviluppi invece ulteriormente in un bozzolo di false sicurezze, fatto di memorie totalmente ondivaghe.

[…] Si vive esattamente come si muore e si muore come si vive. Se si vive nella paura, si muore nella paura. Se si vive in modo disponibile, si muore in modo conseguente. Dimenticate la morte e datevi apertamente alla vita. Quando avete l’opportunità di sentire la paura, dite grazie. Se la provate ora, non dovrete subirla più tardi sul letto di morte. Lasciatela parlare sensorialmente. Voi non avete paura, voi sentite la paura. A poco a poco si svuota. Quando vi capita di avere paura, se tentate con certe tecniche di minimizzarla, la rincalzate un po’ di più ogni volta ed essa vi raggiungerà al  momento della morte.
Vivere disponibili. La morte diventa un non-avvenimento e non ci pensate più. Non è necessaria nessuna conoscenza. Evitate di leggere il libro tibetano dei morti. Non rimandate più la vita preparandovi alla morte. Inutile entrare nelle fantasmagorie religiose, culturali o allora, se vi sembra indispensabile, fatelo, ma avendo coscienza che è una fantasia. Non c’è bisogno di preti né di conoscenze esoteriche.
Morte alla proprie attese, alle proprie angosce, alle proprie inquetitudini. È questa morte che è importante. Se questa morte prende veramente corpo in voi, constaterete che la riflessione sulla morte del corpo non può presentarsi.
La vostra cultura è localizzata nella vostra memoria e non è impossibile che, secondo l’età in cui partirete, la vostra memoria sia intaccata dagli anni.  Tutte le cose che avete accumulato, tutto ciò che avete letto, tutte le tecniche e le esperienze romantiche a cui vi siete dati, visto il deterioramento del vostro cervello, non vi saranno più possibili. Quindi tutte le vostre preparazioni sono inutili e non c’è niente da sapere.
La disponibilità al presente vi accompagna in ciò che è importante.
Tutte le riflessioni che potete fare sul tema sono solo una memoria. È un ammasso d’informazioni che avete appreso alla televisione o eventualmente assistendo amici morenti. È su questo accumulo di nozioni errate che basate la vostra idea di morte.
Dimenticate il grande maestro, il lama, tutte le persone che vorrebbero assistervi. La famiglia che s’ostina a piangere, le persone che dicono di aiutarvi e sono tristi sono una calamità. Voi morite tranquillamente, solo, su di un marciapiede o su un letto d’ospedale. Non c’è nessun bisogno d’essere circondato. Morire semplicemente, come si vive, liberamente.
Se la situazione comporta che la vostra famiglia in lacrime sia lì, bisogna accettarlo. Se il suo cattivo karma vuole che un lama tibetano persista a volervi venire in aiuto, o che un prete cattolico tenga a benedirvi, lasciatelo fare.
Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza psicologica.
La loro agitazione ritualizzata permette loro di rimandare la loro paura. Ma queste azioni psicopatiche non vi toccano affatto. Niente vi può aiutare e questo è la meraviglia, perché niente è necessario. Come la sera il corpo muore progressivamente nel sonno, il pensiero scompare, la percezione se ne va. Le persone che sono felici di vedervi partire possono restare. Quelli che sono tristi devono essere allontanati dal capezzale di un morente.
È una mancanza di rispetto, una mancanza d’amore essere afflitti.
I vostri amici veri gioiranno quando sapranno della vostra morte. Ciò che diciamo ora non è rivolto a tutti. Lo Yoga è l’arte di morire. Quando lavorate col corpo, imparate a morire. Non farlo a livello simbolico, ma in pratica. Imparate a vivere, è la stessa cosa.

Da un’intrvista ad Eric Baret – Tratto da 3ème  Millénarie n. 65 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

Davanti ai grandi interrogativi, come quelli del senso della vita e della morte, occorre dunque anzitutto una altrettanto grande anima, in grado di immergersi nelle domande senza anelare a risposte definitive. Occorre emanciparsi dalla presunzione di conoscere “la strada”, adottando invece l’apertura e l’attitudine dell’esploratore, che sa creare nuovi percorsi laddove il viaggiatore superficiale percepirebbe solo sbarramenti.

Di fronte a un tema abissale quale il senso della morte bisognerebbe passare in rassegna le molteplici risposte delle mitologie, delle religioni, delle filosofie e delle tradizioni spirituali dell’umanità […]. Occorre però avere la consapevolezza che tutte le discipline richiamate sono, ognuna a modo suo, un discorso dell’anima umana, un’investigazione su di sé di quella coscienza cui tutti noi partecipiamo. In questa prospettiva io penso che dobbiamo imparare a considerare le religioni e le filosofie diverse dalla nostra come qualcosa che ci appartiene; e anche chi tra noi non aderisce ad alcuna religione deve considerare tali argomenti (anche se non necessariamente le argomentazioni) come qualcosa che lo riguardano. Dicendo questo, non intendo favorire nessun sincretismo intaccando la specifica identità delle singole religioni; intendo piuttosto sostenere che l’atteggiamento spirituale più maturo è quello di chi sa, con le parole di Hegel, che «l’uomo non porta in sé come suo pathos un unico dio; ma l’animo dell’uomo è grande e vasto, a un vero uomo appartengono molti dèi, ed egli racchiude nel suo cuore tutte le potenze che sono sparse nella cerchia degli dèi; tutto l’Olimpo è raccolto nel suo petto». Chi guarda gli uomini con amore ed empatia capisce che, al fondo, non ci sono credenti e non credenti, o credenti in un modo o in un altro: ci sono esseri umani alle prese con il senso dell’essere e del vivere qui e ora, di cui la morte costituisce il più drammatico interrogativo.
A questo riguardo presento a titolo introduttivo tre brevi e incisive citazioni della tradizione ebraico-cristiana e una più lunga e articolata del buddhismo. La prima: «Memento mori», «Ricordati che devi morire»: è il motto dei monaci trappisti, ripreso dalla predicazione cristiana e ampiamente diffuso, soprattutto nel medioevo. La seconda: «Pulvis es et in pulverem reverteris», «Polvere sei e in polvere ritornerai»: sono le parole che Dio disse a Adamo dopo il peccato […]. Si capisce a questo punto il senso della terza citazione costituita dalle parole dipinte da Masaccio ai piedi della sua Trinità affrescata a Santa Maria Novella, con quello scheletro che rivolto a coloro che guardano dice: «Io fui già quel che voi siete, e quel ch’io son, voi anco sarete».
In uno dei testi più autorevoli del buddhismo, Il grande discorso sulla formazione della consapevolezza (in pali Satipaṭṭhānasutta), il Buddha dice così ai suoi discepoli: «O monaci, se un monaco vede un corpo morto da un giorno, da due giorni o da tre giorni, gonfio, livido e putrefatto, abbandonato nell’ossario, egli applica ciò che vede al proprio corpo così: “In verità, anche il mio corpo è della stessa natura, avrà la stessa sorte e non potrà sfuggirvi”.

Passi da Etica per giorni difficili di Vito Mancuso

Insicurezza, dubbio, paura sono emozioni che accomunano gli uomini di ogni tempo ed ogni luogo. Non si tratta di nemici da combattere, ed è proprio dalla loro forza e pervasività che nasce l’anelito alla trascendenza dell’uomo.

Se la felicità dipende sempre da qualcosa che si attende per il futuro, inseguiamo un fuoco fatuo che sfugge sempre alla nostra presa sino a quando il futuro, e noi stessi, non svaniremo nell’abisso della morte.
Di fatto la nostra epoca non è più insicura di qualsiasi altra. Miseria, malattia, guerra, mutamento e morte non sono nulla di nuovo. Nei tempi migliori la “sicurezza” non è mai stata se non temporanea e apparente. Ma è stato possibile rendere sopportabile l’insicurezza della vita umana credendo in qualcosa di immutabile al di là della portata delle calamità: in Dio, nell’immortalità dell’anima umana, in un universo retto dalle leggi eterne del bene.
Oggi queste convinzioni sono rare, anche negli ambienti religiosi. Non c’è alcuno strato sociale, e sono probabilmente pochissimi i singoli individui, toccati dall’istruzione moderna, in cui il dubbio non fermenti. È semplicemente lapalissiano che nel secolo scorso l’autorità della scienza si e sostituita all’autorità della religione nell’immaginazione popolare e che lo scetticismo, almeno nelle faccende dello spirito, è divenuto più generale della fede.

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

E se una certezza c’è per il vivente, questa paradossalmente è proprio la morte. Perché drammatizzare dunque?

SULLA MORTE SENZA ESAGERARE
Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wisława Szymborska (traduzione di Pietro Marchesani)
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Mantra Storie, racconti e poesie

Maha mṛtyunjaya mantra: il mantra della grande vittoria sulla morte

ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम्
उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्


Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhim puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt

Rg-Veda (VII, 59,12)
Preghiamo il Signore dei tre spazi, che si trova ovunque come una fragranza e ci nutre. Possa egli liberarci dalla paura della morte, come il frutto maturo che si stacca dalla pianta (senza dolore), e farci acquisire il senso dell’immortalità. 

Oppure:

Veneriamo il Signore dai tre occhi profumato, che dà la forza/incrementa la prosperità; come un melone (maturo), dai legami della morte possa (io) essere liberato/staccato, ma non dall'immortalità. 

O, nell’interpretazione del Dalai Lama:

Prego l'Essere Divino che si rivela nel profumo del fiore della vita e che nutre in eterno la pianta della vita. Come un bravo giardiniere che coglie con abilità il frutto maturo, mi liberi da ogni paura a livello fisico, psichico e spirituale. Che l'imperituro Dio abiti in me, mi liberi da morte, decadimento e malattia. Che mi conduca al Regno Divino e trasformi la mia morte in Vita Eterna. 

tryambakaṃ: Signore dai tre occhi (e quindi tre spazi: esterno, interiore, del sé), epiteto di Rudra Shiva
yajāmahe: adorare, pregare
sugandhiṃ: fragranza
puṣṭivardhanam: sostiene e nutre
urvārukam: frutto (cocomero, melone)
iva: come
bandhanān: schiavitù, legame
mṛtyor: morte
mukṣīya: liberare
māmṛtāt: non morte, immortalità

Il Tryambaka Mantra è noto anche come Maha Mrytyunjaya Mantra perché aiuta chi lo recita a superare la paura della morte, ma è anche conosciuto come Markandeya Mantra dal nome del suo rishi, cioè di colui che, secondo la tradizione, lo ricevette e lo recitò per primo. È considerato secondo per importanza solo al Gayatri Mantra.

Si tratta di un mantra curativo e nutriente. La sua vibrazione ci collega al guaritore interiore e rafforza la volontà, il coraggio e la determinazione, risvegliando la forza terapeutica più intima. Conseguentemente risulta un valido supporto durante l’assunzione di medicinali, erbe curative, cibo, in quanto ne rafforza gli effetti.

Shiva stesso nel Netra Tantra parlando con la sua sposa Parvati, cita questo mantra, che donerebbe la capacità di raggiungere la libertà ed eliminare qualsiasi forma di sofferenza in quanto distruttore di tutte le malattie e fonte di salute, benessere e longevità, nonché di protezione a livello fisico e mentale.

L’immortalità cui si fa riferimento non è da intendere, ovviamente, come annullamento della morte, ma come consapevolezza che il proprio Sé è imperituro. Anche Patanjali, quando enuncia i klesha (afflizioni) include tra essi anche abhinivesha (sete di esistenza, paura della morte) affermando: “L’attaccamento alla vita è la più sottile delle sofferenze. Lo si ritrova perfino nel saggio” (YS. II,9).

Il miglior momento per recitarlo è di sera, infatti il momento in cui il giorno si trasforma in notte può simboleggiare il passaggio dalla vita alla morte.

Forse può risultare curioso sapere che la tradizione popolare ne suggerisce la ripetizione nel giorno del compleanno per almeno 50.000 volte; questo, congiuntamente ad un’offerta ai poveri, porterà salute, pace, prosperità e moksha, la liberazione. In India si usa recitare il Tryambaka mantra quando un bambino raggiunge il suo 1° compleanno, proprio per augurargli una vita lunga, senza malattie e dedita alla spiritualità.

La leggenda di Markandeya racconta di un uomo saggio di nome Mrikandu e di sua moglie Marudvati che vivevano in santità, praticando meditazioni e rituali con umiltà e devozione. Sebbene avessero raggiunto una grande saggezza e conoscenza spirituale, non avevano figli. Durante una meditazione eseguita proprio con l’intenzione di veder esaudito questo loro desiderio, ebbero l’esperienza di una visita da parte del divino Shiva in persona che offrì loro di scegliere tra un figlio virtuoso e pio che sarebbe vissuto solo 16 anni e un figlio ottuso e malizioso che sarebbe vissuto fino a 100 anni. Come previsto da Shiva, essi scelsero il figlio divino e quando nacque gli diedero nome Markandeya. Questa coppia, molto avanzata spiritualmente, aveva molto da insegnare al figlio, compreso il Gayatri mantra e la puja (cerimonia rituale) a Shiva che egli eseguiva ogni giorno con grande devozione. Nel corso dei suoi primi 15 anni, gli diedero tutti gli strumenti necessari per raggiungere la conoscenza spirituale, ma non gli rivelarono mai la brevità della sua vita. Il giorno del suo 16° compleanno, Markandeya finì la sua meditazione su Gayatri e incominciò come al solito la puja. A quel punto sentì che il prana cominciava a lasciare il suo corpo e capì immediatamente che stava per morire. Pieno di paura e di dolore, pensò a Shiva, ai suoi genitori e abbracciò lo Shivalinga, il simbolo dell’energia e della forma di Shiva recitando il Tryambaka Mantra. Yama dio della morte, fece scattare il suo cappio intorno al collo del giovane saggio, che circondava anche il lingam. Adirato, Shiva emerse dal lingam, attaccando ed uccidendo Yama per salvare il suo devoto. Successivamente Shiva, su richiesta dei deva, resuscitò Yama, a condizione che Markandeya rimanesse sedicenne per sempre. Ancor oggi nei testi classici, si fa riferimento a Markandeya come ad uno dei maestri sempre vivi che dimorano tra le cime dell’Himalaya.

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Letture e spunti Maestri

L’indecidibilità e gli opposti

Il pensiero categorizza diversi tipi di opposizione: il contrario, che nega il termine dato e si colloca all’estremo opposto di una gradazione interna al genere (bianco/nero, giusto/sbagliato, ecc.) ed il contraddittorio, che nega il termine dato e rimanda a tutto ciò che quel termine non è, sia all’interno che all’esterno del genere di cui si tratta (bianco/non bianco, giusto/non giusto, ecc.).

“L’approccio sensoriale ha una parte importante perché l’accento è messo sul sentito profondo piuttosto che sul pensiero. Molte scuole mettono l’accento sul pensiero. L’approccio dello śivaismo del Kaśmīr mette l’accento sul sentire profondo perché questo è globale, mentre il pensiero è frammentato. Non si può pensare al bianco senza pensare al nero, non si può pensare alla collera senza pensare alla tranquillità. Si pensa sempre in maniera duale, mentre si può avere una sensazione globale al di là degli opposti. È per questo che, di tutti i sensi esplorati, è sul sentito profondo che si mette di più l’accento. Il sentire profondo non è il sentire. Il sentire è un senso come un altro, ma il sentito arriva a essere il sentito profondo, che è totalmente globale. […] 
Il sentito profondo è laddove culminano i sensi. L’occhio vede, la pelle sente, l’orecchio intende, le narici odorano, ecc. Tutto questo è sormontato da ciò che si chiama il sentito profondo. Posso perdere la vista, non vedo più, ma sento profondamente; posso avere la pelle bruciata, non sento più, ma sento profondamente; posso strapparmi la lingua, non gusto più, ma sento profondamente, ecc.è un senso inerente al corpo che non può essere toccato dagli avvenimenti che invece toccano i cinque sensi. Questo sentito profondo globale è l’apertura verso la sensazione dell’energia. Questo sentito profondo ci fa osservare la pesantezza, la gravità, che in seguito ci fa sentire la leggerezza, l’espansione del corpo, la quale si trasforma in vibrazione dell’energia. È la porta diretta alla tranquillità. […] Non si cerca di manipolare l’energia come nello yoga classico. Non si cerca di risvegliare alcunché, ma si lascia che il corpo ritorni al suo stato naturale di energia. È un lavoro totalmente passivo.”

Passi da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga a cura di Marie-Claire Reigner

Il linguaggio verbale è strumento potentissimo e sublime, ma al contempo pone limiti e confini anche laddove la sostanza è illimitata e vasta.

“Il senso dell’unione col ‘Tutto’ non è però uno stato mentale nebuloso, una specie di trance in cui sia abolita ogni forma e distinzione, quasi che l’uomo e l’universo siano fusi in una bruma luminosa di pallido malva. Così come processo e forma, energia e materia, io stesso ed esperienza sono altrettanti modi di designare e guardare la stessa cosa, uno e molti, unità e molteplicità, identità e differenza non sono opposti che si escludono a vicenda: ciascuno è anche l’altro, come il corpo è l’insieme dei suoi organi. Scoprire che i molti sono l’uno e che l’uno è i molti significa rendersi conto che sono entrambi parole e suoni che rappresentano quanto è chiarissimo ai sensi e ai sentimenti, ma al tempo stesso è un enigma per la logica e la descrizione.”

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

C’è una forza in grado di conciliare gli opposti, integrarli. Ma, affinché tale forza possa agire, occorre non temere le dicotomie che la vita ci propone come esperienza, non rifuggere ciò che la società, la cultura di appartenenza o noi stessi etichettiamo come ”negativo”. E se anche a quella forza abbiamo bisogno di dare un nome, potrebbe trattarsi della parola ”Amore”.

“Finché si è motivati a divenire qualcosa, finché la psiche crede nella possibilità di sfuggire a ciò che essa è in questo istante, non può esserci libertà. Perseguiremo la virtù esattamente per lo stesso motivo per il quale perseguiremo il vizio, e bene e male si alterneranno come i poli opposti dello stesso cerchio. Il ‘santo’ che sembra aver soggiogato il proprio egoismo con la violenza spirituale lo ha solo nascosto. Il suo successo apparente convince gli altri che egli ha trovato la ‘vera via’ ed essi ne seguono l’esempio abbastanza a lungo perché la loro linea di condotta oscilli verso il polo opposto, quando la licenza diverrà l’inevitabile reazione al puritanesimo.
Certo, sembra il più abietto fatalismo dover ammettere che io sono ciò che sono, e che non vi può essere né via di scampo né divisione. Sembra che sia io ad aver timore, quindi a essere ‘bloccato’ dalla paura. Di fatto però sono incatenato alla paura solo fino a quando cerco di liberarmene. Se invece non cerco di liberarmene, scopro che nella realtà del momento non c’è niente di ‘bloccato’ o fisso. Quando acquisto la consapevolezza di questo sentimento senza dargli un nome, senza chiamarlo ‘paura’, ‘cattivo’, ‘negativo’, ecc., esso si trasforma istantaneamente in qualcos’altro e la vita avanza liberamente. Il sentimento non si perpetua più creando dietro di sé il senziente.
Ora riusciamo forse a vedere perché la psiche indivisa non sia spinta verso queste vie di scampo dal presente che di solito sono chiamate il ‘male’. L’ulteriore verità che la psiche indivisa è consapevole dell’esperienza come unità, del mondo come se stessa, e che l’intera natura della psiche e della consapevolezza è d’essere tutt’uno con quanto essa conosce, fa pensare a uno stato che di solito verrebbe chiamato amore. L’amore che si esprime in azione creativa è in effetti qualcosa di assai di più che un’emozione. Non è qualcosa che tu possa ‘sentire’ e ‘sapere’, ricordare e definire. L’amore è il principio organizzatore e unificatore che fa del mondo un universo e della massa disintegrata una comunità. È l’essenza stessa, il carattere stesso della psiche e si manifesta nell’azione quando la psiche è integra.”

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

L’esperienza vivificante di essere, al di là degli opposti, riconduce al fascino del mistero, laddove rinunciamo a qualsiasi forma di catalogazione e ci immergiamo nell’Assoluto senza forma.

La cultura occidentale divide i mondi tra finito e infinito, attribuendo al finito un carattere opaco e muto e all’infinito la trasparenza e il senso. Ma io, e forse tutti i bambini solitari, prediligevo il muto e vedevo attraverso l’opaco. Era la vita nuda e cruda, i fenomeni, che mi davano il senso piú alto del mistero; la trasparenza era guardare con simpatia nell’opaco. Giocare a nascondino era scoprire il mondo senza di me. Osservare gli animali era conoscere la natura del vivente e l’affidamento a qualcosa che ci sorpassa.
Nascosti da soli in un fitto di alberi siamo trasparenti eppure accolti, siamo un insieme privo di somiglianze e di peculiarità, vivi e basta.

Passi da Questo immenso non sapere di Chandra Candiani
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Essere aggrediti è un dono

Uno dei tranelli in cui facilmente incappa un certo tipo di praticante di yoga è quello di sentirsi più cosciente, più centrato, più equilibrato rispetto ad una certa umanità tendenzialmente gregaria ed appiattita su bisogni indotti dalla società del consumo. Brusco è il risveglio alla realtà del ginnico yogi nel momento in cui qualcuno lo deride, lo infanga, lo critica, ed un fiume di rabbia implacabile gli si riversa nelle vene.

A un certo punto non vi capiterà più di sentirvi aggrediti da chicchessia, compresi da quelli che vi aggrediscono. Più qualcuno vi aggredisce, più vi lasciate invadere da una forma d’affetto per lui. Vedrete la sua miseria, la sua tristezza, la sua problematica.
Nello spazio di apertura, essere odiato, che sia nell’istante o nel tempo, sviluppa automaticamente una forma d’affetto. Maggiore è l’odio, maggiore l’affetto. Quello che vi odia cerca l’amore che rifiuta a se stesso. Siete voi che lo portate poco a poco a vedere che l’amore che sente rifiutarsi da voi è in lui stesso; e che non ha bisogno di voi per trovarlo. È un processo organico, non pensato, inevitabile, che si compie in ogni istante e che bisogna riconoscere, altrimenti si dimora costantemente nella reazione.
La sera, vi togliete i vestiti per non coricarvi con abiti sporchi; vi lavate i denti, per addormentarvi senza tutte quelle impurità nella bocca; vi lavate il viso per la stessa ragione. Questo vi appare naturale. Nello stesso modo, prima di addormentarvi, deponete tutte le vostre aggressioni immaginarie della giornata. Se no, l’indomani, la giornata sarà dura.
Essere aggredito è il vostro dono per non addormentarvi.
È facile credersi tranquilli, fare dello yoga, essere saggi. Ma improvvisamente, vi si aggredisce, vi si detesta, vi si odia. Questo vi permette di svegliarvi alla vostra risonanza. Ciò attiva in voi l’amore? L’odio? Scoprite il vostro proprio funzionamento. Lo yoga è questo. Non è restare seduti come un paletto, ma osservare come si fa fronte all’istante. Scoprite che le aggressioni sono i doni più profondi della vita, perché più vi si aggredisce, più si sviluppa la vostra maturità. Le vite prive di aggressioni sono delle vite miserabili, e fortunatamente ciò non esiste.
Siate disponibili, non cercate di accomodare le cose, di reagire meno, d’essere più saggi. Sentite vivamente la vostra follia quando siete messi in questione. Prendete le vostre emozioni come oggetto di contemplazione, di studio, con affetto e pazienza.
Non aspettate nulla, non chiedete niente, tutto si fa da sé.

Passi da Lasciar libera la luna, Éric Baret

Preconcetti, abitudini, paure, ignoranza ci fanno a volte interpretare come aggressivi i comportamenti di chi ci circonda, anche quando uno sguardo più attento ed una sensibilità più fine potrebbero cogliere motivazioni insospettatamente amichevoli o di sostegno nei volti dei nostri presunti aguzzini.

L’opposizione del sapiente è meglio del sostegno dello sprovveduto
Una vipera s’introdusse nella gola di uomo addormentato in piena campagna.
Dall’alto della sua cavalcatura, un cavaliere assistette alla scena. «Se l’uomo continua a dormire verrà ucciso dal veleno della vipera. Non c’è tempo da perdere» pensò il cavaliere, che era un uomo di conoscenza.
In fretta e furia diede dei violenti scossoni all’uomo per svegliarlo. Dopodiché, raccolta una grande quantità di frutta fradicia sparsa a terra, costrinse l’uomo a inghiottirla. Tenendolo sempre immobilizzato lo costrinse poi a ingurgitare delle possenti sorsate d’acqua di una pozzanghera.
L’uomo, svegliatosi di soprassalto, non riusciva a capire ciò che stava succedendo. Piangendo, pregò quello che a lui parve un aggressore di smettere di torturarlo.
Ma il cavaliere continuò la sua operazione, finché l’uomo, spossato fisicamente, non diede di stomaco, rigettando le mele marce, l’acqua sporca e la vipera. Solo a quel punto realizzò ciò che era successo.
«Ti ringrazio» disse l’uomo appena salvato «ma c’era proprio bisogno di trattarmi in quel modo? Se mi avessi svegliato tranquillamente e spiegato che cos’era successo, avrei accolto meglio la tua operazione!».
«Questo è ciò che tu immagini, poiché vivi nella credenza che ciò che ti piace corrisponda a ciò di cui hai bisogno! Se ti avessi spiegato cos’era successo, forse non mi avresti creduto. Oppure te la saresti data a gambe, impazzito dallo spavento. O forse saresti rimasto paralizzato dal panico. O, ancora, avresti continuato a dormire come se niente fosse. E così non avremmo avuto il tempo né il modo di organizzare le circostanze adatte per portarti in salvo!» rispose il cavaliere che, rimontato in sella, se ne andò al galoppo.”

Passi da Il dito e la luna – 101 storie Sufi 

Siamo istruiti ed allenati a vivere ad un ritmo incalzante. Tutto è urgente, tutto veloce. Anche le nostre reazioni seguono le stesse dinamiche. Creare spazio, porre una distanza, anche minima, tra gli eventi e la nostra reazione ad essi, potrebbe costituire una chiave di volta.

Abbandonare la rabbia, una volta che ci siamo dentro completamente, richiede uno sforzo immenso. Molti di noi non sono capaci di compierlo sul momento. Il motivo è che, per la maggior parte del tempo, siamo incastrati nella nostra modalità di attacco. Possiamo sentire di essere aggrediti. I nostri sistemi sono pronti a reagire in fretta. Con anche solo un attimo di pausa, possiamo gradualmente abbandonare la nostra modalità di attacco e spostarci verso uno spazio tranquillo di presenza che rende possibile una reazione più compassionevole e appropriata.
La meraviglia di una pratica regolare della meditazione seduta è che ci aiuta a essere meno in modalità attacco-e-difesa prima che si verifichi la situazione che ci mette in agitazione. Così, in quel momento di offesa o di rabbia, siamo più capaci di fermarci e praticare. Siamo capaci di tornare più in fretta alla realtà. Magari sentiamo comunque che la vita ci sta aggredendo, ma conquistiamo la capacità di osservare che ci sentiamo così e tornare a quello che sta succedendo dentro di noi. La forza interiore necessaria per farlo è il frutto di una pratica ripetuta.

Passi da Meraviglia quotidiana, Charlotte Joko Beck

Ammettere di avere torto è una sorta di suicidio sociale, equivale ad annientare l’immagine del proprio io, a rinunciare ad una delle proprie maschere. Per salvaguardare la nostra identità siamo spesso noi stessi a trasformarci in spietati aggressori, sguainando la spada in difesa delle nostre presunte ragioni da difendere.

Se ti identifichi con una posizione mentale, nel caso in cui tu abbia torto, il tuo senso di identità basato sulla mente si sente gravemente minacciato. Perciò tu, in quanto ego, non puoi permetterti di sbagliare. Avere torto è come morire. Per questo motivo si sono combattute guerre e si sono interrotte infinite relazioni.
Una volta che hai eliminato l’identificazione con la mente, avere ragione o torto non fa più nessuna differenza per il tuo senso di identità, perciò non avrai più il bisogno compulsivo e profondamente inconsapevole di avere ragione (che è una forma di violenza). Puoi affermare chiaramente e con fermezza quel che pensi o ciò in cui credi, ma non lo farai in modo aggressivo né mettendoti sulla difensiva, perché a quel punto la tua identità deriverà da un luogo più profondo e autentico dentro di te, non dalla mente.”

Passi da Come mettere in pratica Il Potere di Adesso, Eckhart Tolle

Molte sono le esperienze, le persone o gli eventi che nella vita oggettivamente ci aggrediscono, attaccano, feriscono. Forse però vale la pena osservare come sia sempre e solo la percezione che noi abbiamo di esse e la reazione che mettiamo in campo a renderle intollerabili o, al contrario, parte del viaggio.

L’uomo dall’animo in pace non è in conflitto con nessuno.
Una volta un maestro e un suo allievo stavano tranquillamente passeggiando per strada, quando a un tratto un uomo, giunto alle loro spalle, si diresse verso il maestro accanendosi con ferocia. Dopo essere stato colpito energicamente, il maestro cadde a terra. L’uomo, soddisfatto della sua dissennatezza, se ne andò.
Dopo essersi rialzato, il maestro, un po’ zoppicante, proseguì la passeggiata senza neppure voltarsi indietro per individuare l’aggressore.
L’allievo, scosso dall’evento inspiegabile, chiese: «Maestro, ma chi era quell’uomo? Cosa significa tutto ciò? Perché vi ha aggredito?».
Accennato un sorriso, il maestro rispose: «Il problema è suo, non mio!».”

Passi da Il dito e la luna – 101 storie Sufi