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Dispiegare le ali e prendere il volo

Eccoci: donne e uomini con un corpo strettamente connesso alla terra, con membra pesanti che ci ancorano al suolo. Ed è forse anche per questo che siamo affascinati dall’idea del volo.

È significativo che Viṣṇu dorma su un serpente e cavalchi un’aquila [Garuḍa, n.d.r.]. I serpenti e le aquile sono infatti nemici nati; il serpente mangia le uova dell’aquila, e l’aquila caccia il serpente. Tuttavia, Viṣṇu convive sia con il predatore sia con la preda, ed è per questo che è il custode. Conosce il valore del serpente e dell’aquila e non preferisce l’uno all’altro, perché sa che ognuno di essi svolge un ruolo importante nel cosmo. Garuḍa evoca la visione a volo d’uccello, lo sguardo strategico dell’umanità, invece il serpente incarna la visione rasoterra, tattica, degli esseri umani. Così, Viṣṇu ha sia una visione ampia sia una visione focalizzata del mondo, il che fa di lui il grande osservatore e custode di tutte le cose.

Da Yoga e mito di Devdutt Pattanaik

Ma quando viene a mancare il terreno sotto i piedi, allora imparare a volare diventa un’esigenza, una via d’uscita.

PC: Lo spirito è tutto.

TS: Cosa vuoi dire?

PC: Credo che un altro modo per dirlo sia che l’attitudine è tutto. […] È vedere il bicchiere mezzo pieno. E in ciò che accade c’è sempre un potenziale per crescere.
Questo non significa sentirsi bene o male, ma andare oltre queste etichette di bene e male. Puoi sperimentare la tua vera natura come vasta, aperta, nuova, spassionata e non presa da queste etichette che mettiamo sulle cose.
Nel processo di invecchiamento lo spirito è tutto. Guardare alle cose come positive, guardare avanti – proviamo a usare la parola avanti invece di positivo, perché ciò include qualsiasi cosa possa accadere. Invece di andare indietro cercando di trovare queste piccole isole di sicurezza che continuano a venir meno, impari invece a volare o a fluttuare e a stare bene nel senza forma, senza terreno sotto i piedi, nell’aperta indeterminatezza delle cose, che è ciò che sei sempre stata.
Non sai mai cosa stia per accadere, e passando da un momento all’altro non sai mai chi sei. Tutto accade piano piano. Vedi, per me, a questo punto, è semplicemente elettrizzante come tutto continui ad accadere. Persino la noia accade.”

Da Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio di Pema Chödrön

E chi più dei poeti può insegnarci a librarci in alto, ad adottare prospettive inattese ed ardite?

E poi la vita ci insegna che bisogna sempre volare in alto. Più in alto dell’invidia, più del dolore, della cattiveria… Più in alto delle lacrime, dei giudizi. Bisogna sempre volare in alto, dove certe parole non possono offenderci, dove certi gesti non possono ferirci, dove certe persone non potranno arrivare mai.

Alda Merini

Ho bisogno di alleggerire le spalle, perché è da troppo tempo
che sono cariche di pesi che non ho voluto e non ho chiesto.
E poi sotto ci sono le mie ali. Ci sono io, che ho bisogno di volare.

Alda Merini

Gabbiani

Non so dove i gabbiani
abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua
ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi
amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Vincenzo Cardarelli

Piegare le ali
distendere le ali
sprimacciarsi
becchettare
buttarsi all’aria
posarsi
mettere il capo sotto l’ala
abbandonarsi
al governo del vento
contrastare l’ora del buio
con stracci di voce
nell’aria blu.
Farsi un nido
ramo su ramo
filo per filo
abbandonarlo
migrare
tornare
fissare un punto in aria
chinare il capo
aprire il becco
aspirare
il cielo
disobbedire agli angeli
e agli astronauti
farsi terra e polvere
giú giú
restituirsi
a vermi erba e assenza
di gravità:
leggero leggerissimo
chi cade.

Da Fatti vivo di Chandra Livia Candiani

Ed in fondo ogni ricercatore auspica di poter assistere al misterioso ed ipnotico volo d’uccelli in grado di aprire le porte della comprensione profonda, del Sé libero dallo spazio e dal tempo.

Un mutamento improvviso accadde una sera sul lungomare di Bombay. Stavo guardando gli uccelli volare, senza formulare un pensiero o un’interpretazione, quando fui completamente preso da essi e avvertii che ogni cosa stava accadendo dentro di me. In quel momento conobbi me stesso consapevolmente. La mattina successiva seppi, di fronte alla molteplicità della vita quotidiana, che «essere comprensione» si era determinato. L’auto-immagine si era totalmente dissolta, e libero dal conflitto e dall’interferenza dell’immagine dell’io, tutto ciò che accadeva apparteneva all’essere consapevolezza, alla totalità. La vita scorreva senza essere attraversata dalle correnti dell’ego. La memoria psicologica, il piacere e il dispiacere, l’attrazione e la repulsione, erano svaniti. La presenza costante, che chiamiamo il Sé, era libera da ripetizione, memoria, giudizio, comparazione e valutazione. Il centro del mio essere era stato proiettato spontaneamente fuori dal tempo e dallo spazio in una calma senza tempo. In questo non-stato dell’essere la separazione tra «tu» e «io» svaniva completamente. Nulla appariva fuori. Ogni cosa faceva parte di me, ma io non ero in essa. C’era soltanto l’unità.

Conobbi me stesso nell’accadimento presente, non come un concetto, ma come un essere senza localizzazioni nel tempo e nello spazio. In questo non-stato c’era libertà, piena gioia senza oggetto. C’era puro ringraziamento, senza un oggetto di cui ringraziare.

Non era un sentimento affettivo, ma una libertà da ogni affettività, una freddezza prossima al calore.

Da La naturalezza dell’essere di Jean Klein
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Il principiante e l’uomo di seconda mano

Quante volte incontriamo negli altri o adottiamo noi stessi l’atteggiamento saccente di chi già è convinto di sapere, di conoscere? Se volessimo dissetarci con un bicchiere d’acqua ristoratrice, ma ne trovassimo uno già colmo di liquido stantio, non getteremmo il contenuto per versarvene di nuovo, fresco ed effervescente?

La gente dice che praticare lo Zen è difficile, ma fraintende il perché. Lo Zen non è difficile perché è duro sedere con le gambe incrociate nella posizione del loto, o ottenere l’illuminazione. È difficile perché è arduo mantenere pura la nostra mente e pura la nostra pratica nel suo senso fondamentale. […] In Giappone abbiamo un’espressione, shoshin, che significa “mente di principiante”. Il fine della pratica è sempre quello di conservare la nostra mente di principiante. […] Per gli adepti zen la cosa più importante è non essere dualistici. La nostra “mente originaria”’ racchiude tutto in sé. Dentro di sé è sempre ricca e autosufficiente. Non dovete perdere lo stato mentale di autosufficienza. Ciò non significa una mente chiusa, bensì una mente vuota e pronta. Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche. […] Se discriminate troppo, vi limitate. […] Se la vostra mente si fa esigente, se bramate qualcosa, finirete per violare i vostri stessi principi: non mentire, non rubare, non uccidere, non essere immorali, e così via. Se conservate la vostra mente originaria, i principi si conserveranno da soli. Nella mente di principiante non si trovano mai pensieri del tipo: “Io ho ottenuto qualcosa”. Ogni pensiero egocentrico limita la nostra vasta mente. Quando non abbiamo alcun pensiero di conseguimento, alcun pensiero di un sé, allora siamo dei veri principianti. Allora possiamo realmente imparare qualcosa. La mente di principiante è la mente della compassione. Quando la nostra mente è compassionevole, diventa sconfinata. […] Dunque la cosa più importante è conservare sempre la mente di principiante. […] È  questo anche il vero segreto dell’arte: essere  sempre un principiante. […]

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Quando le restrizioni fisice, mentali, emotive non sono più vissute come limiti, ma come ambito stesso della pratica, opportunità di indagine e scoperta, nasce un’esperienza davvero nuova e potenzialmente illuminante.

Noi diciamo che la nostra pratica deve essere priva di idee di conseguimento, priva di qualsiasi aspettativa, persino in merito all’illuminazione. […] Fermare la mente non significa fermare le attività mentali. Significa che la mente pervade il corpo intero. La mente segue il respiro. […] Con la mente intera sedete con le gambe doloranti senza esserne disturbati. Ciò significa sedere in meditazione senza alcuna idea di conseguimento. All’inizio avvertirete una certa restrizione nella posizione fisica, ma quando non siete più disturbati dalla restrizione, avete scoperto il significato di “vuoto è vuoto e forma è forma“. Quindi trovare la vostra propria via sotto una certa restrizione è la via seguita dalla pratica. […]  Quando le restrizioni che avete non vi limitano più, allora parliamo di pratica. […] Per il principiante praticare senza sforzo non è vera pratica. Per il principiante la pratica richiede grande sforzo […] Ma se voi semplicemente fate del vostro meglio nello sforzo di continuare la pratica con tutta la vostra mente e tutto il vostro corpo, senza idee di conseguimento, allora qualsiasi cosa facciate sarà vera pratica. Il vostro intento dovrebbe essere semplicemente continuare. Quando fate qualcosa il vostro intento dovrebbe essere semplicemente farla e basta. […] Dopo un po’ di tempo che praticate, vi accorgerete che non si possono fare progressi rapidi e straordinari. […] Anche se vi sforzate moltissimo, progredirete sempre soltanto un po’ per volta. […] Perciò non c’è alcun bisogno di preoccuparsi dei progressi da fare. […] Non ci aspettiamo nemmeno di progredire. Basta essere sinceri ed esercitare pienamente il proprio sforzo ad ogni istante. Non c’è alcun Nirvana al di fuori della nostra pratica, distinto da essa.

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Se la nostra idea di progressione si serve della ripetizione per migliorare di volta in volta la performance, eccoci scivolare nel conosciuto, allontanarci dal qui e ora fatto di prime esperienze che sono inesorabilmente anche le ultime (perché mai ci si può bagnare nelle stesso fiume).

[…] si lavora senza memoria. Ogni volta che il movimento è fatto, è la prima e l’ultima volta. Questo bruciare della memoria è essenziale per evitare di essere nella ripetizione. Non può esservi progressione possibile poiché è sempre la prima volta. Non si è mai più lontani o meno lontani, più vacanti o meno vacanti della volta precedente. Si esplora quel che è lì, si è come si è. Non è in rapporto con la seduta precedente né con la seguente. Ciò permette di attraversare una forma di progressione immaginaria. […] A livello del lavoro, è come un pianista che suona un pezzo di musica. Durante mesi, suona sempre lo stesso pezzo. Il vicino, che non è musicista, ha l’impressione che sia la stessa ripetizione. Per il pianista ogni giorno è nuovo, perché ogni volta il suo tocco sarà cambiato, ogni volta l’umidità farà sì che il piano risuoni con una sonorità differente, eccetera. Per noi è la stessa cosa. Il corpo è uno strumento di musica. Ogni volta che il corpo è utilizzato, si scopre una risonanza differente rispetto all’ambiente. Ogni volta che sollevo il braccio, che il busto scende in avanti, è una cosa nuova, una nuova esperienza. Non è una ripetizione, non si cerca di andare sempre più lontano e di meglio in meglio. Ogni volta, si riparte da zero. È sempre la prima volta. Nello stesso tempo, è sempre l’ultima volta. È per questo che dopo il movimento occorre lasciare che esso muoia, perché non vi sia memoria. L’indomani, lo stesso movimento è rifatto, e non è lo stesso, è un altro che gli assomiglia dall’esterno, ma per colui che sente è sempre nuovo. In questa novità, il bisogno di cambiare la posa si smorzerà.

Da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner

È solo nella più disorientante assenza di riferimenti che può esprimersi la vera creatività. Ecco allora che dallo spaesamento può sorgere la lucidità, dallo smarrimento la centratura.

La mente, che è di solito pigra e indolente, trova facile seguire quello che qualcun altro ha detto. Il seguace accetta l’“autorità” come mezzo per ottenere ciò che viene promesso da un particolare sistema filosofico o di pensiero; egli vi si aggrappa, ne dipende e quindi ne rafforza l’“autorità”. Un seguace dunque, è un uomo di seconda mano; e la maggior parte della gente è del tutto di seconda mano. Possono credere di avere qualche idea originale sulla pittura o sulla letteratura o su altro, ma nell’essenza, dal momento che sono condizionati a seguire, a imitare, ad adeguarsi, sono diventati esseri di seconda mano, assurdi. Questo è un aspetto della natura distruttiva dell’autorità. Come esseri umani, seguite psicologicamente qualcuno? Non parliamo dell’obbedienza esteriore, del seguire le leggi – ma interiormente, psicologicamente, seguite? Se lo fate allora siete essenzialmente di seconda mano; potete fare ottimi lavori, condurre una buona vita, ma tutto ciò ha pochissimo valore. C’è anche l’autorità della tradizione. Tradizione significa: “trasportare dal passato al presente” – tradizione religiosa, familiare, razziale. E c’è la tradizione della memoria. […] Una volta istituito un modello, la mente lo ripete. […] Ma tutto si è trasformato in tradizione e non scaturisce più dalla prontezza, dall’acutezza e dalla chiarezza. La mente che abbia coltivato la memoria, agisce in base alla tradizione come un computer – ripetendo ancora e ancora. Non può mai ricevere alcunché di nuovo, o ascoltare in modo del tutto diverso. […] Così ci si chiede: “Che debbo fare?”, “Come posso sbarazzarmi del vecchio meccanismo, del vecchio nastro?”. Si può sentire il nuovo solo quando il vecchio nastro taccia del tutto senza sforzo, quando si è seri nell’ascoltare, nello scoprire, e si può dare tutta la propria attenzione. […] Come può un cervello, una mente così condizionata dall’autorità, dall’imitazione, dal conformismo, dall’adattamento, ascoltare qualcosa di totalmente nuovo? Come si può vedere la bellezza di una giornata se la mente, il cuore, il cervello sono offuscati dal passato che ha acquistato tanta autorità? Se si può realmente percepire il fatto che la mente è oppressa dal passato e condizionata da varie forme di autorità, che non è libera e quindi è incapace di vedere in modo completo, allora senza sforzo il passato viene eliminato. La libertà implica la totale scomparsa di ogni autorità interiore. Da questa qualità della mente deriva una libertà esteriore – qualcosa di totalmente diverso dal reagire opponendosi o resistendo. […] Quando si comprende la libertà si comprende anche cosa sia la disciplina. E questo può sembrare piuttosto contraddittorio poiché generalmente pensiamo che libertà significhi libertà da ogni disciplina. Qual è la qualità di una mente altamente disciplinata? La libertà non può esistere senza la disciplina; […] Cosa significa dunque “disciplina”? Secondo il vocabolario il significato della parola “disciplina” è “imparare” – non una mente che si costringe a seguire un certo modello di azione secondo un’ideologia o una fede. Una mente capace di imparare è del tutto diversa da un’altra capace solo di conformarsi. Una mente che impari, che osservi, che veda effettivamente “ciò che è”, non interpreta “ciò che è” secondo i propri desideri, il proprio condizionamento, i propri particolari piaceri. Disciplina non vuol dire repressione e controllo, e non è neppure adattamento ad un modello o a un’ideologia; significa che una mente vede “ciò che è” e impara da “ciò che è”. Una simile mente deve essere straordinariamente sveglia, consapevole. […] La disciplina imposta dai genitori, dalla società, dalle organizzazioni religiose significa conformismo. […]Disciplina è imparare, non conformarsi. Il conformismo comporta il paragonarsi agli altri, misurare se stesso secondo cosa si è o si crede di essere con l’eroe, il santo, e così via. Dove ci sia conformismo deve esserci paragone […]. Sin dall’infanzia siamo condizionati a far paragoni […] Nel corso della nostra educazione ci abituiamo a far paragoni, nelle scuole si assegnano voti e si fanno esami. Non sappiamo cosa voglia dire vivere senza far paragoni e senza essere competitivi, e quindi vivere in modo non aggressivo, non competitivo, non violento. Paragonare se stesso ad un altro è una forma di aggressività e di violenza. […] Il perfezionamento di se stessi è proprio l’antitesi della libertà e dell’imparare. […] Ciò che si può descrivere è il conosciuto, e la libertà da ciò che è conosciuto si può avere solamente quando ogni giorno si muore a ciò che è conosciuto, ai colpi, alle adulazioni, a tutte le immagini che avete creato, a tutte le vostre esperienze – morire ogni giorno di modo che le stesse cellule del cervello diventino fresche, giovani, Innocenti.

Jiddu Krishnamurti
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Ascoltare veramente

Questo mese, nei nostri incontri, dopo esserci immersi nel silenzio, abbiamo ascoltato le parole di un grande filosofo, un ricercatore spirituale che ha sempre rifiutato il ruolo di maestro, ribadendo che la verità non può essere trasmessa a parole, ma solo scoperta in se stessi. Sono parole che invitano il ricercatore a liberarsi da ogni strada già tracciata, dal passato, dai dogmi, dalle ideologie, guardando la realtà senza alcun condizionamento.

Saper ascoltare

Vi siete mai seduti in silenzio senza fermare l’attenzione su una cosa qualsiasi, senza fare il minimo sforzo per concentrarvi, con una mente davvero calma? Se lo fate, potete ascoltare i rumori lontani e quelli vicinissimi a voi: siete in contatto coi suoni. Allora state veramente ascoltando. La vostra mente non si limita a funzionare attraverso un solo insufficiente canale. Quando ascoltate in questo modo, con grande tranquillità, senza sforzo, scoprite che dentro di voi avviene un cambiamento straordinario, un cambiamento che non dipende dalla vostra volontà e che si produce senza che voi lo chiediate; è un cambiamento che porta con sé l’immensa bellezza di una percezione profonda.

Da Il libro della vita: Meditazioni quotidiane di Juddu Krishnamurti

Sedersi in silenzio senza sforzo: sembra facile, ma solo in apparenza. Poniamo che il meditante si sieda a terra, assumendo una posizione che inviti alla distensione della colonna vertebrale. A volte è sufficiente questo a generare sforzo: articolazioni rigide, muscolatura dolorante e subito appare chiaro che quello stare seduti calmi e rilassati, come nelle tante immagini pubblicitarie che occhieggiano in ogni dove, è più una fantasia che una realtà sperimentabile nell’immediato. Un corpo tranquillo, vacante, richiede una preparazione, un lavoro, un impegno.

Una mente tranquilla è altrettanto spesso un miraggio. Si prende la risoluzione di rimanere nel puro ascolto di ciò che raggiunge i padiglioni auricolari e, qualche istante dopo, si è già impegnati a stilare la lista della spesa, a ripercorrere mentalmente un appuntamento di lavoro, a programmare il tagliando dell’auto.

Ascoltare senza schermi

Come ascoltate? Ascoltate attraverso le vostre proiezioni, le vostre ambizioni, i desideri, le paure, le angosce? Ascoltate solo quello che volete sentire, solo quello che vi soddisfa o che vi lusinga? Ascoltate solo quello che vi conforta e che attenua momentaneamente la vostra sofferenza? Se ascoltate attraverso lo schermo dei vostri desideri è ovvio che state ascoltando solo la vostra voce: state ascoltando solo i vostri desideri. Ma esiste un altro modo di ascoltare? Non è forse importante scoprire come si possa ascoltare, non solo quello che dicono gli altri, ma qualunque cosa: il rumore della strada, il cinguettio degli uccelli, lo sferragliare del tram, il fragore delle onde, la voce di vostro marito o di vostra moglie o quella dei vostri amici, il pianto di un bambino? Ascoltare diventa importante quando smettiamo di proiettare i nostri desideri. Possiamo mettere da parte tutti gli schermi che ci impediscono di ascoltare veramente?

Da Il libro della vita: Meditazioni quotidiane di Juddu Krishnamurti

Probabilmente di primo acchito ci viene da pensare che ascoltare solo se stessi sia tipico di persone vanesie, qualcosa che non ci riguarda in prima persona. Ma un minimo di riflessione più accurata ci porterà a prendere atto di quante volte non siamo davvero presenti, totalmente attenti, a quanto gli altri o l’ambiente di dicano. Anche nel dialogo siamo spesso impegnati a preparare la battuta di rimando al nostro interlocutore piuttosto che a lasciarci permeare da quanto ci viene comunicato. A volte si tratta di strategie di sopravvivenza, come quando ci relazioniamo con persone chiaramente logorroiche, ma spesso questo accade anche nell’ambito dei rapporti più intimi, svuotandoli di valore e condannandoli lentamente ma inesorabilmente al disseccamento.

Questo ascolto minato dall’ego è una delle tante facce del nostro costante vivere nella pretesa: pretesa di essere ascoltati, di essere amati, di essere rispettati, di essere riconosciuti.

Pretesa di essere, paura di non essere.

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L’insegnante di Yoga

Due anni complessi quelli appena trascorsi, ed il futuro non ha nubi meno fosche all’orizzonte. Questa breve premessa è forse già da sola sufficiente a spiegare perché alcuni esseri umani, ed io fra questi, si trovino ad affrontare resistenze nel corpo e nella mente sconosciute fino a qualche tempo fa. Certo, il tempo scorre ed il processo naturale d’invecchiamento fa il suo corso, ma per alcuni Crono sembra presentarsi come elegante galantuomo, per altri come arrogante macellaio.

Come reagiamo di fronte ad un’immagine di noi stessi in cui non ci riconosciamo? Come facciamo pace con un corpo che non risponde secondo gli standard (nostri o della società)? Come accettiamo la mente che come un tarlo scava facendo dell’autocritica uno strumento di tortura?

La tentazione di lasciarsi andare all’autocommiserazione sa diventare davvero pericolosa e pervasiva e, accompagnandosi alla mancanza d’amore per sé, rischia di trasformarsi in autolesionismo.

Come in molti momenti difficili o bui, accade a volte che la magia di un incontro si materializzi. Per me è la voce di un Maestro, l’eco di una Tradizione, il dono della Grazia.

Un insegnante di yoga è qualcuno che ha studiato con intensità i suoi propri blocchi e limiti. Ha riconosciuto che i suoi blocchi e limiti provengono sempre da una rappresentazione di se stesso. Ha visto che tutte le critiche che ha verso gli altri e verso se stesso vengono sempre dall’immagine che ha di se stesso. Si è reso conto che tutte le sue sofferenze vengono sempre da se stesso, mai dall’esterno, e che l’esterno lo riconduce al suo proprio blocco. Si è reso conto che se non ha questa immagine interiore, nessun avvenimento esterno può aggredirlo. È il cuore dell’insegnamento dello yoga.

In seguito, lo yoga trasmette questa visione, mettendo di nuovo in questione sensorialmente i limiti del corpo, affinché il corpo divenga aperto, sensibile; affinché l’esterno divenga l’interno e che non si possa più essere aggrediti. Come nelle arti marziali quando si riceve un colpo: viene assorbito. Lo yoga insegna ad assorbire la vita senza resistere. Occorre avere la convinzione profonda che ogni problematica esteriore è la mia problematica. Non viene mai dall’esterno.

L’insegnante è colui che ha vissuto e visto ciò in numerosi elementi della sua vita e che potrà aiutare l’allievo a vivere questa trasformazione. Più l’insegnante ha avuto dei problemi, più è stato traumatizzato, e più avrà una qualità terapeutica funzionale, perché sarà passato attraverso gli stessi handicap dell’allievo.

Allo stesso modo, più il corpo dell’insegnante è un corpo difficile, più egli sarà un buon insegnante, perché troverà nell’allievo le stesse difficoltà e potrà aiutarlo. Chi ha un corpo facile, che non ha mai sentito un blocco, che ha una psiche assai chiara, che è nato in maniera chiara, avrà una maggiore difficoltà a trovare la pedagogia necessaria all’allievo.

L’insegnante di yoga è colui che ha anzitutto un ascolto di se stesso. In seguito lo traspone agli allievi. È per questo che non si dovrebbero mai accettare coloro che vogliono apprendere questo approccio per insegnarlo, perché arrivano con un’intenzione. Non vengono per ascoltare, ma per un mestiere. Normalmente, la persona viene per passione, per scoprire come ascoltare la sua problematica, il suo corpo, la sua vita affettiva. Eventualmente, questo ascolto si trasmetterà più tardi a chi gli sta intorno nella forma di un insegnamento. È un “brutto segno aver l’idea di insegnare quando non si è nemmeno iniziato ad ascoltarsi. Generalmente, è qualcuno che non avrà la capacità di essere un insegnante funzionale.

Una disciplina deve essere intrapresa per amore e non per interesse.

In seguito, la funzionalità si mette in atto. È la stessa cosa per la musica o per la danza. Chi vuole imparare il violino per diventare professore di violino, non sarà mai un buon violinista. Si pratica il violino per amore; in seguito eventualmente si trasmette la pedagogia che si è scoperto.

Si dovrebbero accettare quelli che vogliono impararlo per scoprire cosa c’è di bloccato, di limitato in loro stessi. Eventualmente, più tardi, la vita farà sì che queste persone trasmetteranno questo stesso orientamento. Questo non ha mai fatto parte di un progetto. È per questo che non vi sono mai formazione e insegnamento di yoga possibili, né una progressione. Non si possono formare degli insegnanti. Si possono unicamente formare persone che ascoltano e stimolare in loro l’umiltà per mettersi all’ascolto. Ma chi vuole impararlo per insegnare farebbe meglio a rivolgersi ad un altro sistema di yoga. Il corpus dello śivaismo del Kaśmīr non ha posto per il minimo arrivismo, per la minima appropriazione, per la minima professionalizzazione.”

Passi da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner
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Il fiume e l’oceano

Da un satsang con Eric Baret di agosto 2020.

Domanda: C’è un racconto di Gibran in cui un fiume si deve gettare nell’oceano. Quando è alla foce si guarda indietro, guarda tutto quello che ha fatto. Lui sa che sarà l’oceano, ma come affrontare serenamente, senza paura, il tuffo? 

Risposta: Non c’è alcun avvenimento, non c’è mai stato un fiume, non c’è che l’oceano. Non occupatevi delle favole, ma esplorate la paura. La sola questione interessante nella domanda è la paura. La grazia è  la paura. Esplorate questa paura e avrete una risposta diretta alla vostra domanda. Ma se rimanete nei racconti, nelle favole filosofiche, la paura non farà che aumentare. La filosofia è una scappatoia, la paura è la realtà. Esplorate la paura; tutto il resto è uno spostare un po’ più in là, è una forma di rinvio.

 “Il fiume e l’oceano”

Dicono che prima di entrare in mare
Il fiume trema di paura.
A guardare indietro
tutto il cammino che ha percorso,
i vertici, le montagne,
il lungo e tortuoso cammino
che ha aperto attraverso giungle e villaggi.
E vede di fronte a sé un oceano così grande
che a entrare in lui può solo
sparire per sempre.
Ma non c’è altro modo.
Il fiume non può tornare indietro.
Nessuno può tornare indietro.
Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.
Il fiume deve accettare la sua natura
e entrare nell’oceano.
Solo entrando nell’oceano
la paura diminuirà,
perché solo allora il fiume saprà
che non si tratta di scomparire nell’oceano
ma di diventare oceano.

(Khalil Gibran)

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Gurdjieff e la Quarta Via

“…alcuni insegnamenti paragonano l’uomo ad una casa di quattro stanze. L’uomo vive in una sola, la più piccola e la più povera di tutte, senza supporre minimamente, fino a quando non glielo si dice, l’esistenza delle altre, che sono piene di tesori. Quando egli ne sente parlare, incomincia a cercare le chiavi di queste stanze, e specialmente della quarta, la più importante. E quando un uomo ha trovato il mezzo di penetrarvi, diventa realmente il padrone della sua casa, perchè è soltanto allora che la casa gli appartiene completamente e per sempre.” (Frammenti di un insegnamento sconosciuto – P. D. Ouspensky)

Biografia

George Ivanovitch Gurdjieff, nato in Armenia intorno al 1866 da una famiglia greca emigrata, ebbe l’opportunità di incontrare uomini straordinari dai quali acquisì la convinzione che qualcosa di vitale importanza mancava nella considerazione dell’uomo e del mondo nella letteratura e nella scienza europee.  Con un gruppo di “cercatori della verità” viaggiò per molti anni attraverso l’Africa, l’Asia e l’Estremo Oriente. Nel 1922 fondò l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo al Castello del Prieuré di Fontaineblau, nei pressi di Parigi. Qui il “lavoro su se stessi” da lui proposto attirò, tra gli altri, diversi intellettuali ed artisti europei. Organizzò una vera e propria comunità indipendente dedita a svariate attività: dalla coltivazione alle conferenze sugli aspetti teorici del “lavoro”, dall’allevamento di animali a speciali classi di esercizi per la “trasformazione delle energie” che consistevano nei famosi “movimenti” tratti da danze sacre.  Nel 1924 organizzò in America un’altra branca dell’Istituto, dando per l’occasione una dimostrazione dei suoi “movimenti” accompagnati al pianoforte dalle musiche sacre elaborate assieme al musicista russo Thomas De Hartmann. Morì nel 1949.

Cosa si intende per “Quarta Via”

Per essere “quarta” prima ce ne devono essere altre tre… ed infatti, come ci spiega Ouspensky nel suo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, secondo Gurdjieff le “vie” tradizionalmente note per lo sviluppo spirituale erano inadatte alla vita dell’uomo occidentale, soprattutto perché partivano tutte dal passo più difficile: un cambiamento di vita totale, una rinuncia a tutto ciò che è di questo mondo. Per essere percorse occorreva (ed occorre), fin dal primo giorno, morire al mondo: abbandonare casa e famiglia, rinunciare a tutti i piaceri, attaccamenti e doveri della vita.

  1. La “Via del Fachiro” è quella di colui che si sforza di sviluppare la volontà, di trasformare le energie per mezzo di intensi ed a volte penosi sacrifici fisici, di sviluppare il potere sul corpo. Ma le altre sue funzioni, emozionali ed intellettuali, rimangono non sviluppate. Egli ha conquistato la volontà, ma non possiede niente cui applicarla, non può farne uso per acquistare la conoscenza o perfezionare se stesso. Il maestro in questa via non insegna, serve semplicemente da esempio. Il lavoro dell’allievo consiste nell’imitare il maestro.
  2. La “Via del Monaco” è la via della fede, del sentimento religioso e del sacrificio (tipicamente intrisa della lotta tra il bene il male, tra peccato e santità). Colui che la intraprende è totalmente concentrato sui sentimenti. Sottomettendo tutte le altre emozioni a una sola, la fede, egli sviluppa in se stesso l’unità, la volontà sulle emozioni. Ma il suo corpo fisico e le sue capacità intellettuali possono restare non sviluppate. L’essenziale è la fede in Dio ed alla guida spirituale vanno riconosciute assoluta sottomissione ed obbedienza.
  3. La “Via dello Yogi” è la via della conoscenza, la via dell’intelletto. Ha il suo fulcro nello sviluppo di una “supercoscienza” attraverso tecniche mentali. Colui che la intraprende riesce a sviluppare il suo intelletto, ma il suo corpo e le sue emozioni, nella visione di Gurdjieff, restano da sviluppare. Sulla via dello Yogi senza un maestro non si può e non si deve fare nulla.

Per Gurdjieff però esiste una via che non richiede che ci si ritiri dal mondo e che non esige la rinuncia a tutto ciò che costituisce la nostra vita.

  1. La “Quarta Via” si propone come un lavoro integrato sulla totalità dell’essere umano. Un lavoro, dunque, che permette all’uomo occidentale di continuare la normale vita quotidiana servendosene come strumento per risvegliare la propria consapevolezza e lavorare su se stesso. La nostra educazione è incompleta: fisico, emozioni e intelletto sono insufficientemente educati e soprattutto non coordinati tra loro. L’esistenza è ridotta così ad una sorta di sonno ipnotico, tanto che si è inconsapevoli perfino nel cosiddetto stato di veglia, e si perde conseguentemente l’occasione di realizzare le possibilità latenti insite nell’individuo. Così anche l’intera storia collettiva dell’umanità viene condotta a tragici traguardi di “sonno della coscienza” che si manifestano in guerre, distruzioni, mercificazione degli esseri viventi, manipolazioni sociali, ecc. 

I quattro stati di coscienza

Per Gurdjieff l’uomo ordinario solitamente vive nei due stati di coscienza più bassi ed i due superiori gli sono inaccessibili, benché egli possa averne conoscenza a sprazzi.

  1. Il sonno è lo stato passivo e di totale incoscienza nel quale gli uomini trascorrono un terzo e sovente anche la metà della loro vita. 
  2. La coscienza lucida o stato di veglia della coscienza o stato semidesto è quello durante il quale ci si dedica alle attività quotidiane (camminare, scrivere, discutere, ecc.) e nel quale gli uomini trascorrono l’altra metà della loro vita , ma anch’esso è caratterizzato da incoscienza.
  3. Il ricordarsi di sé o coscienza di sé o autoricordo è rendersi conto che non ricordiamo noi stessi. È lo stato in cui ci si sottrae ai vagabondaggi mentali, si entra nei propri corpi e se ne acquisisce la sensibilità.
  4. La coscienza obiettiva è lo stato di coscienza in cui l’uomo può vedere le cose come sono, la piena coscienza di sé e di tutto quanto il resto, indescrivibile a parole. Talvolta, negli stati inferiori di coscienza, egli può avere dei barlumi di questa coscienza superiore (ed a seconda delle tradizioni sarà definito «illuminazione», “satori”, “samhadi”, ecc.).

Attenzione e consapevolezza nella Quarta Via

La capacità di dirigere e soprattutto dividere l’attenzione è uno dei temi fondamentali della Quarta Via, una condizione indispensabile per lo sviluppo organico della consapevolezza. L’uomo comune infatti non è veramente consapevole e deve lottare strenuamente contro quelle che nel linguaggio di Gurdjieff sono le forze “meccaniche” (e che oggi potremmo definire “condizionamenti” di natura biologica, psicologica, sociale, politica, ecc.) che governano la sua vita per conquistare la coscienza e con essa l’appellativo di “essere umano”.

Gurdjieff spesso ripeteva che l’uomo moderno è costantemente addormentato – anche quando dice di essere sveglio – e che per poter vedere la Realtà deve svegliarsi dal proprio sonno meccanico. 

“L’uomo è un essere multiplo. Solitamente parlando di noi stessi diciamo «io» faccio questo, «io» penso quello, «io» voglio fare quell’altro. Ma è un errore. Questo «io» non esiste o, meglio, in ciascuno di noi ci sono centinaia, migliaia di piccoli «io». I nostri «io» sono contraddittori, ecco il motivo del nostro funzionamento disarmonico. Ordinariamente viviamo soltanto con un’infima parte delle nostre funzioni e della nostra forza, perché non ci rendiamo conto che siamo macchine e non conosciamo la natura e il funzionamento del nostro meccanismo. Noi siamo macchine. Siamo totalmente condizionati dalle circostanze esteriori. Tutte le nostre azioni seguono la linea di minor resistenza alla pressione delle circostanze esterne. Fatene l’esperienza: potete comandare le vostre emozioni? No. Potete cercare di sopprimerle o di cacciarne una con un’altra. Però voi non potete controllarle: al contrario esse controllano voi.” (Vedute sul mondo realeGurdjieff parla agli allievi)

Riferimenti:

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Vijñānabhairava Tantra

Il Vijñānabhairava Tantra è un testo tantrico non dualista (Āgama) fondamentale nella scuola Trika presso lo Śivaismo del Kashmir. Maestri di questa tradizione come Somānanda, Abhinavagupta e Ksemarāja lo hanno tenuto in massima considerazione.

Come suggerisce il nome, questo testo appartiene al gruppo di Āgama chiamato Bhairavatantra, laddove Bhairava “il Terribile” è la manifestazione irosa di Śiva “il Tranquillo”.

Il titolo del testo è stato variamente tradotto come “La conoscenza (mistica) della Realtà Ultima”, ma anche “la conoscenza del Tremendo” e “tantra della conoscenza suprema”. Vijñāna implica qui la conoscenza esperienziale, pura coscienza, consapevolezza, piuttosto che conoscenza analitica. Bhairava è il nome dato all’Assoluto, alla Realtà Ultima, in questa tradizione.

Il nome Bhairava si deve a questo, che

a) Egli porta il tutto ed è da esso portato, empiendolo e sorreggendolo da un lato e parlandolo, cioè pensandolo, dall’altro; che

b) protegge coloro che hanno paura della trasmigrazione; che

c) nasce nel cuore dal grido d’aiuto, dal cogitare generato dalla paura della trasmigrazione; che

d) suscita, per mezzo di una caduta di potenza, l’idea della paura della trasmigrazione; che

e) riluce in coloro la cui mente è tutta intesa alla concentrazione (chiamata) “divorazione del tempo”, in coloro cioè che provocano l’esaurimento dell’essenza del tempo, il motore delle costellazioni; che

f) è il signore delle potenze che presiedono agli organi di senso, il cui grido spaventa le anime decadute, le quali si trovano in stato di contrazione, e della schiera quadruplice delle Eterovaghe, ecc. che risiedono interiormente ed esteriormente; che

g) è il Signore che pone termine all’andamento della trasmigrazione e perciò è grandemente terrifico.

Tali i significati, convenienti invero alla sua natura, menzionati dai maestri nelle loro scritture a proposito del nome Bhairava.

Tantrāloka di Abhinavagupta (a cura di Reniero Gnoli) I, 96-100a

Un Āgama śaiva completo consiste normalmente di quattro parti (pāda), destinate rispettivamente al rito (kriyā), alla conoscenza o filosofia (vidyā, jñāna), alla condotta o modo di vita (caryā) e alla pratica spirituale (yoga). Il Vijñānabhairava però si occupa solo dello yoga e lo sfondo filosofico è presupposto ma non spiegato. Il testo è formulato nella modalità del dialogo tra Bhairava e Bhairavī, o Śiva e Śakti. La dea, e con lei ogni ricercatore, chiede la grazia al suo Signore affinché recida i suoi dubbi e le consenta di giungere a realizzare la trascendenza stessa dell’Assoluto.

Devi chiede: “Qual è la tua realtà, mio Signore?. Lui non risponderà, al contrario offrirà una tecnica, e se Devi la sperimenterà a fondo, saprà. La risposta è quindi indiretta, non è immediata, Śiva non dirà chi è, ma darà una tecnica: sperimentala e saprai. Per il Tantra fare è sapere, e non esiste altra conoscenza. A meno che tu non faccia qualcosa, a meno che tu non cambi, a meno che non abbia una diversa prospettiva da cui guardare, con cui guardare, a meno che non ti muova in una dimensione completamente diversa dall’intelletto, non c’è alcuna risposta.

Il libro dei segreti, Osho

Il Vijñānabhairava insegna 112 metodi, o dhāranā, di concentrazione e di unione con l’Assoluto, ciascuno dei quali esprime una via abbreviata per raggiungere l’inesprimibile, conforme alla tradizione immediata ed in contrasto con le esigenze di una graduale e complessa purificazione etica propugnata da altre scuole e tradizioni.

È innanzitutto uno yoga dell’azione nel mondo dei sensi. Per il tantrika non c’è più scissione tra vita mistica e vita fenomenica […] L’ascesi non è più allora intesa come un ritiro dal mondo fenomenico che permetterebbe l’accesso a una purezza divina, ma al contrario come un’immersione integrale in ciò che la vita ha di più palpitante. I metodi dello yoga tantrico esposti nel Vijñānabhairava sono quelli che ci permettono di assaporare l’essenza divina delle cose […] Tutto, per il tantrika, è saturo di essenza divina. Niente è da evitare, niente da cercare. Lo yogin gode di una libertà assoluta […] da ogni limitazione concettuale, da ogni dogma, da ogni credenza.

Tantra Yoga, Daniel Odier

Secondo Ksemarāja il Trika è la rivelazione ultima delle diverse scuole tantriche. Trika, o la scuola triadica, implica le tre categorie ultime Śiva (Signore), Śakti (la sua Energia) e Nara (gli esseri creati, o Uomo). Si riferisce anche alle tre Energie di Śiva: la Suprema (parā, trascendente), suprema-non-suprema o trascendente-immanente (parāparā) e l’immanente o non suprema (aparā).

Secondo la manifestazione triadica di Śakti ai tre livelli sopra menzionati (parā, parāparā, aparā) ci sono anche diversi modi e mezzi (upāya) per realizzare Śiva che sono classificati secondo lo schema di Trika come:

  • i mezzi individuali o inferiori (ānava, corrispondenti ad anu e aparā),
  • i mezzi di Energia (śākta, corrispondenti a śakti e parāparā)
  • e il modo divino (śāmbhava, corrispondente a Śiva e parā).

Questi upāya che troviamo sistematizzati da Abhinavagupta nel suo Tantrāloka, possono essere applicati ai diversi metodi di yoga descritti nel Vijñāna Bhairava, anche se non sono esplicitamente menzionati come tali.

Fonti:

  • Vijñānabhairava – La conoscenza del Tremendo, a cura di Attilia Sironi, Piccola Biblioteca Adelphi
  • Vijñāna Bhairava – The Practice of Centring Awareness, Swami Lakshman Joo, Indica
  • La dottrina della vibrazione nello śivaismo tantrico del Kashmir, Mark S.G. Dyczkowski, Adelphi
  • Gli aforismi di Śiva, Vasugupta, a cura di Raffaele Torella
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Contenitore, contenuto (2)

Riconsideriamo due termini: contenitore – contenuto. Nessuna forma di razionalizzazione. E come un sasso lanciato in un lago lascia la superficie appena increspata per qualche momento, le parole cadono, sprofondano, si inabissano.

E’ il momento di prendere contatto con il corpo e con il respiro. Per sperimentare la stretta connessione tra i due e verificare quanto la direzione degli occhi condizioni azioni e pensieri, dirigiamo lo sguardo all’addome prima, al torace poi. Non impieghiamo molto a scoprire che il respiro si è spontaneamente installato là dove la vista si è orientata. Seduti a terra con le gambe distese ci lasciamo accarezzare da un’onda lieve, che risale dai piedi al bacino durante l’inspiro e scende dal bacino ai piedi durante l’espiro… Lo sguardo segue questo andirivieni… L’onda viene, l’onda va… L’inspiro sale, l’espiro scende…

E poi viene il momento di incontrare una delle molte voci della saggezza senza tempo:

“[…] Il cervello è un oggetto percepito come sono percepite le orecchie. E’ una sensazione come si può sentire la mano. Quando esplorate la sensazione delle vostre mani, accedete a differenti livelli di sensazioni. E’ lo stesso con il cervello. 

Il cervello è in un certo modo dipendente dagli altri organi, in particolare dagli occhi. Quando guardiamo le cose con lo scopo di scegliere, come facciamo di solito, questo lede il cervello. I nervi ottici sono molto vicini al cervello; così, quando gli occhi sono sotto tensione, anche il cervello lo è. Lasciar andare le tensioni negli occhi e nel cervello è una scienza che si deve imparare. Il lasciar-andare vi porta ad uno stato di disponibilità. Siete pronti, disponibili, innocenti in uno stato di accoglienza. 

[…] Sentendo il cervello, sentiamo prima il suo peso. Allora, perde ogni sostanza, e abbiamo la sensazione come se non ci fosse più la tesa. La testa è completamente in espansione e scompare. Quando la testa è veramente sentita, la maggior parte degli organi è completamente rilassata, specie gli occhi, che sono sempre in procinto di scegliere e di cercare sicurezza. 

Se non potete sentire il cervello subito, cominciate con gli occhi. Sentite la loro cavità e seguite il nervo ottico penetrare il cervello. Quando il cervello sarà rilassato,si avrà una sensazione di spazio attorno a lui. Fatene un oggetto della vostra coscienza e vi dissolverete nello spazio. Alla fine c’è una fusione tra l’osservatore e ciò che è osservato e non c’è che presenza.” – Jean Klein, Sentire il cervello

Giunge il momento di esercitare la propria attitudine ad un atteggiamento meditativo.

Seguendo gli insegnamenti di Eric Baret, torniamo al corpo, diventando attenti alla sensazione degli occhi, al loro peso. Questa volta li lasciamo sprofondare verso l’interno, precipitare lungo un pozzo in direzione del cuore. L’evocazione di paesaggi pregni di colore fornisce lo spunto per lasciarci invadere, attraverso la cavità delle orbite, dal rosso, dal blu, dal verde dal giallo e dal bianco. Quando il corpo intero ha sperimentato il colore, c’è ancora margine per sperimentare quella che è la sensazione del colore… Poi tutto si fa trasparenza pura.

Contenitore, contenuto…

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Contenitore, contenuto (1)

Consideriamo due termini: contenitore – contenuto. Nessuna forma di razionalizzazione. E come un sasso lanciato in un lago lascia la superficie appena increspata per qualche momento, le parole cadono, sprofondano, si inabissano.

E’ il momento di prendere contatto con il corpo, di riconoscerlo in tutta la sua pienezza, di lasciarlo deporre, crollare come crollerebbe un castello di di sabbia. Una voce accompagna quieta verso questo intimo incontro affinché possa realizzarsi uno stato di silente e pacifica resa.

E’ tempo di ascoltare il silenzio.

E poi viene il momento di incontrare una delle molte voci della saggezza senza tempo:

“Quando i muscoli sono sentiti, sono liberi da tutti i condizionamenti, perché la sensazione libera le tensioni e le reazioni. I muscoli sono ricondotti al loro stato naturale. Potete sentire il cervello nello stesso modo, anche se questo è ignorato in neurologia. Quando il cervello è sentito, si distende completamente e tutte le sue vibrazioni rallentano. Quando il cervello è profondamente disteso, non c’è più localizzazione; così non ci può essere concettualizzazione. Non potete più pensare, perché pensare è una localizzazione, principalmente situata nella regione frontale. Così non è necessario difenderci dal pensare, ma semplicemente arrivare allo stato assoluto di rilassamento del cervello. 

Le funzioni e le attività appartengono alla mente e la mente funziona nello spazio-tempo. Nel rilassamento profondo, siete liberi dal pensiero e allora siete liberi dallo spazio e dal tempo che non sono che dei pensieri. Quando siete liberi dallo spazio e dal tempo, non c’è che una costante presenza che non può essere trovata, descritta o localizzata. 

[…] è una presenza costante, dove nessuno, niente, è presente. E’ pericoloso esprimerlo anche poeticamente, ma l’espressione più appropriata per me è che è una costante corrente d’amore. Quando il cervello è veramente sentito, siamo distolti dalle fissazioni, dalle localizzazioni nel cervello. Abbiamo l’impressione di essere in espansione nel nostro corpo. Questa sensazione d’ espansione è l’inizio della meditazione. La meditazione non è che l’atto di rilassare il cervello che fa sempre qualcosa. Esattamente come possiamo liberare i muscoli dai condizionamenti, dai residui del passato, allo stesso modo possiamo liberare il cervello dalle funzioni e dalle attività. 

[…] Ci sono numerosi “trucchi” per fermare il pensiero, ma creano solamente una fissazione su qualche oggetto sottile, mentre la meditazione è completamente senza oggetto. La meditazione non comincia con la ricerca di uno stato. Questo non-stato è la corrente, la presenza che non è toccata dal funzionamento mentale. E’ solo l’ignoranza che attribuisce questa presenza, questa gioia, all’assenza d’oggetto. Se restate convinti che la tranquillità si trova nell’assenza d’oggetto, non diventerete mai liberi dalla dualità. La presenza è al di là della presenza o dell’assenza d’oggetto, al di là della mente, al di là del cervello. Tutto questo appare e scompare nella presenza senza limite che non è oggetto. 

Quando sentite il cervello come sentite i vostri muscoli, non è con l’intenzione d’interferire con il funzionamento del cervello: è molto semplicemente la sensazione, sentire il cervello senza cercare risultato. E’ uno sguardo innocente che libera il cervello dal cervello. Questo vi porta a essere libero dal meditante, da chi agisce e che non è altro che una costruzione mentale. 

[…] La maggior parte delle tecniche, di cui molti sono pratici in certi monasteri, mettono l’accento sull’arresto della funzione del cervello. Possiamo allora essere liberi dai contenuti del cervello, ma i contenuti non sono il problema. La vera finalità non è di esplorare i contenuti, ma il contenitore. Il contenitore non è l’assenza del contenuto, come il gusto della bocca stessa non è l’assenza di altri gusti. 

[…] il cervello funziona quando c’è bisogno di funzionare. Se è chiamato a pensare, pensa. Quando non c’è niente da pensare, non c’è nessun ruolo da assumere. Il cervello è un organo come un altro. Nello stato di distensione, il cervello è vuoto, ma voi siete talmente abituati ad avere un oggetto nella vostra mente che speso ignorate il vuoto della mente. 

[…] Generalmente conosciamo solo la coscienza come un oggetto, essere coscienti di qualcosa, anche se è la coscienza della tranquillità, della pace e così via. Sono ancora oggetti, stati, che vi mantengono nella cornice della dualità. La coscienza senza oggetto vi è sconosciuta; tuttavia è ciò che vi è più vicino, la vostra vera natura, ciò che siete. Questa presenza non può essere sperimentata come gioiosa o senza gioia. E’ senza nessuna qualità. Semplicemente è.” – Jean Klein, Sentire il cervello

Giunge il momento di esercitare la propria attitudine ad un atteggiamento meditativo.

Seguendo gli insegnamenti di Eric Baret, torniamo al corpo, diventando attenti alla sensazione degli occhi, al loro peso, al senso di compressione che vi alberga. E poi lasciamo che i globi oculari, come due biglie di piombo, colino davanti alle orbite, richiamati dalla gravità verso il suolo. Sentiamoli appesi, come si vede in certi dipinti tantrici del buddismo tibetano, coscienti delle orbite vuote, spaziose, profonde come immense caverne. 

Contenitore, contenuto…