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Yogaterapia

Cervicale: strenua difesa

“Si considera che vi sono tre luoghi dove la prensione umana è marcata: le mani, i piedi e la testa, ovvero gli organi di senso. (…) Col viso ed i sensi ci si difende, con le tensioni della bocca, della mascella si aggredisce, con gli altri sensi, ugualmente, si è aggrediti da ciò che si vede, da ciò che si sente. (…) Lo yoga del Kaśmīr mette l’accento sulla profonda distensione dei cinque sensi: occhi, narici, orecchie, bocca, e ugualmente le mani. Molte pose stimolano l’opposizione pollice-indice per ridurre in noi la prensione. C’è anche tutto il lavoro del non-contatto col suolo, in posizione in piedi, per evitare la sensibilità del piede verso il suolo. Non si cerca appoggio, non ci si àncora, si depone la densità delle anche.(…) Se la regione cervicale è bloccata, sono il viso, la mascella che bisognerà distendere. (…) Esplorando la vacuità delle mani, dei piedi, del viso, si arriva ad una distensione globale del corpo. Attraverso queste tre regioni, si tocca direttamente l’insieme del corpo.”

Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner

Quante volte ci è capitato, camminando per la strada, di incrociare perfetti sconosciuti che, in mezzo ad una fiumana indistinta, ci colpiscono per la loro aria nobile, elegante, fiera. Da dove nasce questo tipo di percezione in noi? Molto probabilmente non in considerazione dell’abito che indossano, ma per il loro portamento, in particolare per la postura della testa. A sua volta quest’ultima dipende dalla posizione del collo. Se il collo è adeguatamente collocato, visto di profilo, l’orecchio si troverà nello spazio compreso tra l’arcata sopracigliare e la punta del naso. Se il lobo dell’orecchio si trova più in basso della punta del naso, vuol dire che la testa si trova in estensione su un collo che sprofonda in avanti rispetto alla regine dorsale.

E la fiumana indistinta che non notiamo? Probabilmente quella è composta da uomini e donne che, in misura maggiore o minore, sono gravate da un peso (traumi, stress, ecc.) che fa slittare il capo in avanti e lo sguardo in basso, appiattendo la fisiologica curva del tratto cervicale. E giust’appunto il dolore al collo è spesso dovuto a una perdita del normale e leggero arco in avanti delle vertebre cervicali.

Alcuni semplici movimenti, eseguiti con costanza e consapevolezza, possono aiutarci a prendere coscienza dei nostri blocchi e delle nostre restrizioni, aiutandoci a recuperare una postura corretta.

Di seguito alcune indicazioni pratiche e simboliche fornite da Gabriella Cella Al-Chamali ne I segreti dello Yoga.

Sedete in una posizione corretta col busto ben diritto.

  1. Eseguite piccoli movimenti del capo su e giù, come per accennare un  “sì”; essi vanno a muovere e riscaldare la prima vertebra cervicale. Se volete verificare il movimento, portando le mani sotto la nuca esercitate una lieve pressione con la punta delle dita, proprio dove sentite un avvallamento.
  2. Piccoli movimenti laterali del capo da destra a sinistra come per accennare un “no” muovono e riscaldano la seconda vertebra cervicale; ne potete verificare il punto facendo scorrere la punta delle dita sull’apofisi che sporge.
  3. Una piccola flessione del capo verso il basso e la spalla destra, poi verso il basso e la spalla sinistra, vanno a muovere e riscaldare la terza vertebra, che potete ancora verificare con la pressione delle vostre dita.
  4. 4) Il viso che ruota fino a portarsi di profilo, a destra e a sinistra reca beneficio e riscalda la quarta vertebra. Ruotando il capo verso destra rilassate il braccio destro per verificare con le dita della mano sinistra il punto, quindi rilassate il braccio sinistro per la verifica con la mano destra.
  5. Spingere il mento in avanti e lievemente verso l’alto in modo che sì allunghi un poco, porta beneficio alla quinta vertebra cervicale.
  6. Spingere ancora fino ad inarcare il collo, volgendo il viso al cielo, porta l’azione riscaldante alla sesta vertebra.
  7. Incurvare il collo per guardare verso il basso, finché il mento va a toccare lo sterno, porta una trazione cervicale che interessa soprattutto la settima vertebra.
    • Con questi semplici movimenti si riscalda il collo e si mantengono flessibili tutte le vertebre cervicali prevenendo l’artrosi o impedendo l’avanzare dei processi artrosici se questi sono già in atto. A livello simbolico i movimenti delle sette vertebre indicano lo scorrere dei giorni in un “ciclo finito”, proprio come indicano i giorni della settimana, le note musicali, i colori fondamentali dello spettro luminoso e le costellazioni.
  8. Mantenendo sempre il busto diritto, senza irrigidirlo, ruotate lentamente il capo da un lato e dall’altro, portandone il viso di profilo. Fate che il gesto sia guidato dal respiro lento e profondo. Mantenete gli occhi chiusi affinché siano gli occhi della mente ad osservare il movimento. A livello simbolico questo è il gesto di Brahma Signore dell’inizio, che viene rappresentato con quattro teste ognuna volta verso un punto cardinale. Il suo gesto di rotazione del capo indica la possibilità che hanno gli adepti dello yoga di vedere lontano e chiaro, al di là delle proprie spalle, al di là delle zone oscure e incomprensibili a chi non segue un cammino di consapevolezza. Il gesto va ripetuto più volte, per permettervi di verificare ogni suo ampliamento; quando decidete di tornare al centro, all’immobilità, restate ancora un poco a osservare con gli occhi della mente i due profili del viso, a destra e a sinistra, come se il gesto fosse ancora in atto. In effetti resta ancora un poco l’energia sottile che avete mosso nell’aria. Siate consapevoli dello spazio che il capo occupa, così come deve esserci stata consapevolezza nell’eseguire il gesto.
  9. Inspirate allungando il collo ed espirate lentamente lasciando scendere il capo lateralmente, verso la spalla sinistra. Restate alcuni attimi a sentire la trazione muscolare dall’orecchio destro alla spalla destra, e il rilassamento sul lato sinistro. Poi inspirando riportatevi in posizione diritta ed  espirando lentamente lasciate scendere il capo lateralmente verso la spalla destra. Restate alcuni attimi a sentire la trazione muscolare dall’orecchio sinistro alla spalla sinistra e il rilassamento a destra. Questo è Surya mudra, il gesto del Sole che sorge e tramonta. A livello simbolico indica la possibilità di osservare, attraverso il percorso del Sole che è la fonte primaria di energia, la vita che in un giorno nasce e nello stesso giorno termina.
  10. Fate compiere al capo una completa rotazione sul collo, lentamente seguendo il ritmo del respiro. Inspirando allungate il collo, espirando lasciate scendere la testa giù in avanti, mantenendo le spalle aperte e ferme. Inspirando ruotate il capo fino alla spalla sinistra, espirando lasciatelo scivolare all’indietro fino alla metà della schiena, inspirando ruotatelo fino alla spalla destra ed espirando lasciatelo tornare a pendere davanti. Ripetete tutto in senso opposto: da destra a sinistra. Potete ripetere più volte i movimenti, finché avvertite un piacevole calore al collo e una sensazione di benessere. Questo è Surya Chandra mudra, il gesto del Sole e della Luna.A livello simbolico indica la possibilità di integrazione tra le forze positive e negative, tra la notte e il giorno, il calore e il freddo, tra l’energia maschile rappresentata dal Sole e quella femminile rappresentata dalla Luna.
  11. Portate la mano sinistra sull’orecchio, aperta e ben aderente alla testa, tenendo su il gomito mantenete il capo e il collo diritti. Mentre inspirate, spingete con forza la mano contrastando la spinta con la testa, espirando rilassate la parte. Ripetete l’esercizio per tre volte consecutive a sinistra e poi con le stesse modalità e gli stessi tempi a destra. Questo è Karna Pida mudra, il gesto dell’orecchio e del dolore. A livello simbolico indica la possibilità degli yogin di chiudere l’ascolto laterale, praticamente di ascoltare solo ciò che essi decidono.
  12. Portate le due mani a sostenere il mento. Mantenete il capo ben diritto sul collo, tenete indietro le spalle e inspirando spingete con energia le mani verso l’alto, per allungare il collo, mentre la testa cerca di contrastare il gesto pesando sulle mani e spingendo verso il suolo. Espirando rilassate la parte, Durante la spinta delle mani verso l’alto, dita e palmi si aprono per aumentare la forza dei polsi uniti, mentre nella fase di rilassamento le dita si rilassano toccando il viso. Ripetete l’esercizio per tre volte consecutive. Questo è Kusuma mudra, il gesto del fiore che sboccia e cresce. Simbolicamente rappresenta la possibilità di crescita spirituale: nella gola è collocato il Chakra Vishuddha, il “purissimo” – “l’etereo”, così come indica il suo nome sanscrito, ed è appunto deputato a governare la crescita nel senso più profondo del termine. Ricordate che Vishuddha nel corpo fisico governa la funzione delle ghiandole tiroidee, che influenzano la crescita corporea e lo sviluppo cerebrale, regolando la distribuzione di calcio e fosforo nelle ossa. La divinità femminile raffigurata a questo livello è Shakini, che siede su di un trono formato da ossa, a indicare il suo completo controllo sul corpo umano, partendo proprio dall’osso che è la sua parte più profonda.

Sul piano fisico i movimenti sopra descritti prevengono le forme artrosiche del tratto cervicale ed aiutano coloro che hanno già in atto tali problemi. In casi di discopatie cervicali, sono molto importanti i due ultimi, orecchio e dolore e gesto del fiore, vanno comunque sempre evitati invece quelli che portano dolore, nausea o capogiro. È importante perciò provare a eseguirli tutti quanti, per poter trovare i più adatti ad ogni caso specifico, e ripeterli giornalmente.

Tutti gli esercizi proposti si possono eseguire anche stando seduti sul bordo del letto o su di una sedia, purché il busto venga mantenuto diritto.

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Maestri Yoga & Meditazione

L’insegnante di Yoga

Due anni complessi quelli appena trascorsi, ed il futuro non ha nubi meno fosche all’orizzonte. Questa breve premessa è forse già da sola sufficiente a spiegare perché alcuni esseri umani, ed io fra questi, si trovino ad affrontare resistenze nel corpo e nella mente sconosciute fino a qualche tempo fa. Certo, il tempo scorre ed il processo naturale d’invecchiamento fa il suo corso, ma per alcuni Crono sembra presentarsi come elegante galantuomo, per altri come arrogante macellaio.

Come reagiamo di fronte ad un’immagine di noi stessi in cui non ci riconosciamo? Come facciamo pace con un corpo che non risponde secondo gli standard (nostri o della società)? Come accettiamo la mente che come un tarlo scava facendo dell’autocritica uno strumento di tortura?

La tentazione di lasciarsi andare all’autocommiserazione sa diventare davvero pericolosa e pervasiva e, accompagnandosi alla mancanza d’amore per sé, rischia di trasformarsi in autolesionismo.

Come in molti momenti difficili o bui, accade a volte che la magia di un incontro si materializzi. Per me è la voce di un Maestro, l’eco di una Tradizione, il dono della Grazia.

Un insegnante di yoga è qualcuno che ha studiato con intensità i suoi propri blocchi e limiti. Ha riconosciuto che i suoi blocchi e limiti provengono sempre da una rappresentazione di se stesso. Ha visto che tutte le critiche che ha verso gli altri e verso se stesso vengono sempre dall’immagine che ha di se stesso. Si è reso conto che tutte le sue sofferenze vengono sempre da se stesso, mai dall’esterno, e che l’esterno lo riconduce al suo proprio blocco. Si è reso conto che se non ha questa immagine interiore, nessun avvenimento esterno può aggredirlo. È il cuore dell’insegnamento dello yoga.

In seguito, lo yoga trasmette questa visione, mettendo di nuovo in questione sensorialmente i limiti del corpo, affinché il corpo divenga aperto, sensibile; affinché l’esterno divenga l’interno e che non si possa più essere aggrediti. Come nelle arti marziali quando si riceve un colpo: viene assorbito. Lo yoga insegna ad assorbire la vita senza resistere. Occorre avere la convinzione profonda che ogni problematica esteriore è la mia problematica. Non viene mai dall’esterno.

L’insegnante è colui che ha vissuto e visto ciò in numerosi elementi della sua vita e che potrà aiutare l’allievo a vivere questa trasformazione. Più l’insegnante ha avuto dei problemi, più è stato traumatizzato, e più avrà una qualità terapeutica funzionale, perché sarà passato attraverso gli stessi handicap dell’allievo.

Allo stesso modo, più il corpo dell’insegnante è un corpo difficile, più egli sarà un buon insegnante, perché troverà nell’allievo le stesse difficoltà e potrà aiutarlo. Chi ha un corpo facile, che non ha mai sentito un blocco, che ha una psiche assai chiara, che è nato in maniera chiara, avrà una maggiore difficoltà a trovare la pedagogia necessaria all’allievo.

L’insegnante di yoga è colui che ha anzitutto un ascolto di se stesso. In seguito lo traspone agli allievi. È per questo che non si dovrebbero mai accettare coloro che vogliono apprendere questo approccio per insegnarlo, perché arrivano con un’intenzione. Non vengono per ascoltare, ma per un mestiere. Normalmente, la persona viene per passione, per scoprire come ascoltare la sua problematica, il suo corpo, la sua vita affettiva. Eventualmente, questo ascolto si trasmetterà più tardi a chi gli sta intorno nella forma di un insegnamento. È un “brutto segno aver l’idea di insegnare quando non si è nemmeno iniziato ad ascoltarsi. Generalmente, è qualcuno che non avrà la capacità di essere un insegnante funzionale.

Una disciplina deve essere intrapresa per amore e non per interesse.

In seguito, la funzionalità si mette in atto. È la stessa cosa per la musica o per la danza. Chi vuole imparare il violino per diventare professore di violino, non sarà mai un buon violinista. Si pratica il violino per amore; in seguito eventualmente si trasmette la pedagogia che si è scoperto.

Si dovrebbero accettare quelli che vogliono impararlo per scoprire cosa c’è di bloccato, di limitato in loro stessi. Eventualmente, più tardi, la vita farà sì che queste persone trasmetteranno questo stesso orientamento. Questo non ha mai fatto parte di un progetto. È per questo che non vi sono mai formazione e insegnamento di yoga possibili, né una progressione. Non si possono formare degli insegnanti. Si possono unicamente formare persone che ascoltano e stimolare in loro l’umiltà per mettersi all’ascolto. Ma chi vuole impararlo per insegnare farebbe meglio a rivolgersi ad un altro sistema di yoga. Il corpus dello śivaismo del Kaśmīr non ha posto per il minimo arrivismo, per la minima appropriazione, per la minima professionalizzazione.”

Passi da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner
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Maestri Storie, racconti e poesie

Il fiume e l’oceano

Da un satsang con Eric Baret di agosto 2020.

Domanda: C’è un racconto di Gibran in cui un fiume si deve gettare nell’oceano. Quando è alla foce si guarda indietro, guarda tutto quello che ha fatto. Lui sa che sarà l’oceano, ma come affrontare serenamente, senza paura, il tuffo? 

Risposta: Non c’è alcun avvenimento, non c’è mai stato un fiume, non c’è che l’oceano. Non occupatevi delle favole, ma esplorate la paura. La sola questione interessante nella domanda è la paura. La grazia è  la paura. Esplorate questa paura e avrete una risposta diretta alla vostra domanda. Ma se rimanete nei racconti, nelle favole filosofiche, la paura non farà che aumentare. La filosofia è una scappatoia, la paura è la realtà. Esplorate la paura; tutto il resto è uno spostare un po’ più in là, è una forma di rinvio.

 “Il fiume e l’oceano”

Dicono che prima di entrare in mare
Il fiume trema di paura.
A guardare indietro
tutto il cammino che ha percorso,
i vertici, le montagne,
il lungo e tortuoso cammino
che ha aperto attraverso giungle e villaggi.
E vede di fronte a sé un oceano così grande
che a entrare in lui può solo
sparire per sempre.
Ma non c’è altro modo.
Il fiume non può tornare indietro.
Nessuno può tornare indietro.
Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.
Il fiume deve accettare la sua natura
e entrare nell’oceano.
Solo entrando nell’oceano
la paura diminuirà,
perché solo allora il fiume saprà
che non si tratta di scomparire nell’oceano
ma di diventare oceano.

(Khalil Gibran)

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Maestri

Gurdjieff e la Quarta Via

“…alcuni insegnamenti paragonano l’uomo ad una casa di quattro stanze. L’uomo vive in una sola, la più piccola e la più povera di tutte, senza supporre minimamente, fino a quando non glielo si dice, l’esistenza delle altre, che sono piene di tesori. Quando egli ne sente parlare, incomincia a cercare le chiavi di queste stanze, e specialmente della quarta, la più importante. E quando un uomo ha trovato il mezzo di penetrarvi, diventa realmente il padrone della sua casa, perchè è soltanto allora che la casa gli appartiene completamente e per sempre.” (Frammenti di un insegnamento sconosciuto – P. D. Ouspensky)

Biografia

George Ivanovitch Gurdjieff, nato in Armenia intorno al 1866 da una famiglia greca emigrata, ebbe l’opportunità di incontrare uomini straordinari dai quali acquisì la convinzione che qualcosa di vitale importanza mancava nella considerazione dell’uomo e del mondo nella letteratura e nella scienza europee.  Con un gruppo di “cercatori della verità” viaggiò per molti anni attraverso l’Africa, l’Asia e l’Estremo Oriente. Nel 1922 fondò l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo al Castello del Prieuré di Fontaineblau, nei pressi di Parigi. Qui il “lavoro su se stessi” da lui proposto attirò, tra gli altri, diversi intellettuali ed artisti europei. Organizzò una vera e propria comunità indipendente dedita a svariate attività: dalla coltivazione alle conferenze sugli aspetti teorici del “lavoro”, dall’allevamento di animali a speciali classi di esercizi per la “trasformazione delle energie” che consistevano nei famosi “movimenti” tratti da danze sacre.  Nel 1924 organizzò in America un’altra branca dell’Istituto, dando per l’occasione una dimostrazione dei suoi “movimenti” accompagnati al pianoforte dalle musiche sacre elaborate assieme al musicista russo Thomas De Hartmann. Morì nel 1949.

Cosa si intende per “Quarta Via”

Per essere “quarta” prima ce ne devono essere altre tre… ed infatti, come ci spiega Ouspensky nel suo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, secondo Gurdjieff le “vie” tradizionalmente note per lo sviluppo spirituale erano inadatte alla vita dell’uomo occidentale, soprattutto perché partivano tutte dal passo più difficile: un cambiamento di vita totale, una rinuncia a tutto ciò che è di questo mondo. Per essere percorse occorreva (ed occorre), fin dal primo giorno, morire al mondo: abbandonare casa e famiglia, rinunciare a tutti i piaceri, attaccamenti e doveri della vita.

  1. La “Via del Fachiro” è quella di colui che si sforza di sviluppare la volontà, di trasformare le energie per mezzo di intensi ed a volte penosi sacrifici fisici, di sviluppare il potere sul corpo. Ma le altre sue funzioni, emozionali ed intellettuali, rimangono non sviluppate. Egli ha conquistato la volontà, ma non possiede niente cui applicarla, non può farne uso per acquistare la conoscenza o perfezionare se stesso. Il maestro in questa via non insegna, serve semplicemente da esempio. Il lavoro dell’allievo consiste nell’imitare il maestro.
  2. La “Via del Monaco” è la via della fede, del sentimento religioso e del sacrificio (tipicamente intrisa della lotta tra il bene il male, tra peccato e santità). Colui che la intraprende è totalmente concentrato sui sentimenti. Sottomettendo tutte le altre emozioni a una sola, la fede, egli sviluppa in se stesso l’unità, la volontà sulle emozioni. Ma il suo corpo fisico e le sue capacità intellettuali possono restare non sviluppate. L’essenziale è la fede in Dio ed alla guida spirituale vanno riconosciute assoluta sottomissione ed obbedienza.
  3. La “Via dello Yogi” è la via della conoscenza, la via dell’intelletto. Ha il suo fulcro nello sviluppo di una “supercoscienza” attraverso tecniche mentali. Colui che la intraprende riesce a sviluppare il suo intelletto, ma il suo corpo e le sue emozioni, nella visione di Gurdjieff, restano da sviluppare. Sulla via dello Yogi senza un maestro non si può e non si deve fare nulla.

Per Gurdjieff però esiste una via che non richiede che ci si ritiri dal mondo e che non esige la rinuncia a tutto ciò che costituisce la nostra vita.

  1. La “Quarta Via” si propone come un lavoro integrato sulla totalità dell’essere umano. Un lavoro, dunque, che permette all’uomo occidentale di continuare la normale vita quotidiana servendosene come strumento per risvegliare la propria consapevolezza e lavorare su se stesso. La nostra educazione è incompleta: fisico, emozioni e intelletto sono insufficientemente educati e soprattutto non coordinati tra loro. L’esistenza è ridotta così ad una sorta di sonno ipnotico, tanto che si è inconsapevoli perfino nel cosiddetto stato di veglia, e si perde conseguentemente l’occasione di realizzare le possibilità latenti insite nell’individuo. Così anche l’intera storia collettiva dell’umanità viene condotta a tragici traguardi di “sonno della coscienza” che si manifestano in guerre, distruzioni, mercificazione degli esseri viventi, manipolazioni sociali, ecc. 

I quattro stati di coscienza

Per Gurdjieff l’uomo ordinario solitamente vive nei due stati di coscienza più bassi ed i due superiori gli sono inaccessibili, benché egli possa averne conoscenza a sprazzi.

  1. Il sonno è lo stato passivo e di totale incoscienza nel quale gli uomini trascorrono un terzo e sovente anche la metà della loro vita. 
  2. La coscienza lucida o stato di veglia della coscienza o stato semidesto è quello durante il quale ci si dedica alle attività quotidiane (camminare, scrivere, discutere, ecc.) e nel quale gli uomini trascorrono l’altra metà della loro vita , ma anch’esso è caratterizzato da incoscienza.
  3. Il ricordarsi di sé o coscienza di sé o autoricordo è rendersi conto che non ricordiamo noi stessi. È lo stato in cui ci si sottrae ai vagabondaggi mentali, si entra nei propri corpi e se ne acquisisce la sensibilità.
  4. La coscienza obiettiva è lo stato di coscienza in cui l’uomo può vedere le cose come sono, la piena coscienza di sé e di tutto quanto il resto, indescrivibile a parole. Talvolta, negli stati inferiori di coscienza, egli può avere dei barlumi di questa coscienza superiore (ed a seconda delle tradizioni sarà definito «illuminazione», “satori”, “samhadi”, ecc.).

Attenzione e consapevolezza nella Quarta Via

La capacità di dirigere e soprattutto dividere l’attenzione è uno dei temi fondamentali della Quarta Via, una condizione indispensabile per lo sviluppo organico della consapevolezza. L’uomo comune infatti non è veramente consapevole e deve lottare strenuamente contro quelle che nel linguaggio di Gurdjieff sono le forze “meccaniche” (e che oggi potremmo definire “condizionamenti” di natura biologica, psicologica, sociale, politica, ecc.) che governano la sua vita per conquistare la coscienza e con essa l’appellativo di “essere umano”.

Gurdjieff spesso ripeteva che l’uomo moderno è costantemente addormentato – anche quando dice di essere sveglio – e che per poter vedere la Realtà deve svegliarsi dal proprio sonno meccanico. 

“L’uomo è un essere multiplo. Solitamente parlando di noi stessi diciamo «io» faccio questo, «io» penso quello, «io» voglio fare quell’altro. Ma è un errore. Questo «io» non esiste o, meglio, in ciascuno di noi ci sono centinaia, migliaia di piccoli «io». I nostri «io» sono contraddittori, ecco il motivo del nostro funzionamento disarmonico. Ordinariamente viviamo soltanto con un’infima parte delle nostre funzioni e della nostra forza, perché non ci rendiamo conto che siamo macchine e non conosciamo la natura e il funzionamento del nostro meccanismo. Noi siamo macchine. Siamo totalmente condizionati dalle circostanze esteriori. Tutte le nostre azioni seguono la linea di minor resistenza alla pressione delle circostanze esterne. Fatene l’esperienza: potete comandare le vostre emozioni? No. Potete cercare di sopprimerle o di cacciarne una con un’altra. Però voi non potete controllarle: al contrario esse controllano voi.” (Vedute sul mondo realeGurdjieff parla agli allievi)

Riferimenti:

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Letture e spunti Maestri

Vijñānabhairava Tantra

Il Vijñānabhairava Tantra è un testo tantrico non dualista (Āgama) fondamentale nella scuola Trika presso lo Śivaismo del Kashmir. Maestri di questa tradizione come Somānanda, Abhinavagupta e Ksemarāja lo hanno tenuto in massima considerazione.

Come suggerisce il nome, questo testo appartiene al gruppo di Āgama chiamato Bhairavatantra, laddove Bhairava “il Terribile” è la manifestazione irosa di Śiva “il Tranquillo”.

Il titolo del testo è stato variamente tradotto come “La conoscenza (mistica) della Realtà Ultima”, ma anche “la conoscenza del Tremendo” e “tantra della conoscenza suprema”. Vijñāna implica qui la conoscenza esperienziale, pura coscienza, consapevolezza, piuttosto che conoscenza analitica. Bhairava è il nome dato all’Assoluto, alla Realtà Ultima, in questa tradizione.

Il nome Bhairava si deve a questo, che

a) Egli porta il tutto ed è da esso portato, empiendolo e sorreggendolo da un lato e parlandolo, cioè pensandolo, dall’altro; che

b) protegge coloro che hanno paura della trasmigrazione; che

c) nasce nel cuore dal grido d’aiuto, dal cogitare generato dalla paura della trasmigrazione; che

d) suscita, per mezzo di una caduta di potenza, l’idea della paura della trasmigrazione; che

e) riluce in coloro la cui mente è tutta intesa alla concentrazione (chiamata) “divorazione del tempo”, in coloro cioè che provocano l’esaurimento dell’essenza del tempo, il motore delle costellazioni; che

f) è il signore delle potenze che presiedono agli organi di senso, il cui grido spaventa le anime decadute, le quali si trovano in stato di contrazione, e della schiera quadruplice delle Eterovaghe, ecc. che risiedono interiormente ed esteriormente; che

g) è il Signore che pone termine all’andamento della trasmigrazione e perciò è grandemente terrifico.

Tali i significati, convenienti invero alla sua natura, menzionati dai maestri nelle loro scritture a proposito del nome Bhairava.

Tantrāloka di Abhinavagupta (a cura di Reniero Gnoli) I, 96-100a

Un Āgama śaiva completo consiste normalmente di quattro parti (pāda), destinate rispettivamente al rito (kriyā), alla conoscenza o filosofia (vidyā, jñāna), alla condotta o modo di vita (caryā) e alla pratica spirituale (yoga). Il Vijñānabhairava però si occupa solo dello yoga e lo sfondo filosofico è presupposto ma non spiegato. Il testo è formulato nella modalità del dialogo tra Bhairava e Bhairavī, o Śiva e Śakti. La dea, e con lei ogni ricercatore, chiede la grazia al suo Signore affinché recida i suoi dubbi e le consenta di giungere a realizzare la trascendenza stessa dell’Assoluto.

Devi chiede: “Qual è la tua realtà, mio Signore?. Lui non risponderà, al contrario offrirà una tecnica, e se Devi la sperimenterà a fondo, saprà. La risposta è quindi indiretta, non è immediata, Śiva non dirà chi è, ma darà una tecnica: sperimentala e saprai. Per il Tantra fare è sapere, e non esiste altra conoscenza. A meno che tu non faccia qualcosa, a meno che tu non cambi, a meno che non abbia una diversa prospettiva da cui guardare, con cui guardare, a meno che non ti muova in una dimensione completamente diversa dall’intelletto, non c’è alcuna risposta.

Il libro dei segreti, Osho

Il Vijñānabhairava insegna 112 metodi, o dhāranā, di concentrazione e di unione con l’Assoluto, ciascuno dei quali esprime una via abbreviata per raggiungere l’inesprimibile, conforme alla tradizione immediata ed in contrasto con le esigenze di una graduale e complessa purificazione etica propugnata da altre scuole e tradizioni.

È innanzitutto uno yoga dell’azione nel mondo dei sensi. Per il tantrika non c’è più scissione tra vita mistica e vita fenomenica […] L’ascesi non è più allora intesa come un ritiro dal mondo fenomenico che permetterebbe l’accesso a una purezza divina, ma al contrario come un’immersione integrale in ciò che la vita ha di più palpitante. I metodi dello yoga tantrico esposti nel Vijñānabhairava sono quelli che ci permettono di assaporare l’essenza divina delle cose […] Tutto, per il tantrika, è saturo di essenza divina. Niente è da evitare, niente da cercare. Lo yogin gode di una libertà assoluta […] da ogni limitazione concettuale, da ogni dogma, da ogni credenza.

Tantra Yoga, Daniel Odier

Secondo Ksemarāja il Trika è la rivelazione ultima delle diverse scuole tantriche. Trika, o la scuola triadica, implica le tre categorie ultime Śiva (Signore), Śakti (la sua Energia) e Nara (gli esseri creati, o Uomo). Si riferisce anche alle tre Energie di Śiva: la Suprema (parā, trascendente), suprema-non-suprema o trascendente-immanente (parāparā) e l’immanente o non suprema (aparā).

Secondo la manifestazione triadica di Śakti ai tre livelli sopra menzionati (parā, parāparā, aparā) ci sono anche diversi modi e mezzi (upāya) per realizzare Śiva che sono classificati secondo lo schema di Trika come:

  • i mezzi individuali o inferiori (ānava, corrispondenti ad anu e aparā),
  • i mezzi di Energia (śākta, corrispondenti a śakti e parāparā)
  • e il modo divino (śāmbhava, corrispondente a Śiva e parā).

Questi upāya che troviamo sistematizzati da Abhinavagupta nel suo Tantrāloka, possono essere applicati ai diversi metodi di yoga descritti nel Vijñāna Bhairava, anche se non sono esplicitamente menzionati come tali.

Fonti:

  • Vijñānabhairava – La conoscenza del Tremendo, a cura di Attilia Sironi, Piccola Biblioteca Adelphi
  • Vijñāna Bhairava – The Practice of Centring Awareness, Swami Lakshman Joo, Indica
  • La dottrina della vibrazione nello śivaismo tantrico del Kashmir, Mark S.G. Dyczkowski, Adelphi
  • Gli aforismi di Śiva, Vasugupta, a cura di Raffaele Torella
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Lezioni Yoga & Meditazione

Lezione #1 Balzare in avanti

  • Livello di difficoltà: intermedio
  • Tipo di posture prevalenti: allungamento – equilibrio
  • Focus della sequenza – Chakra: Muladhara – Swadisthana – Manipura
  • Focus della sequenza – gruppi muscolari: quadricipiti – addominali

Potete farvi guidare in una parte della sequenza accedendo a questo video su YouTube

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Letture e spunti Maestri

Contenitore, contenuto (2)

Riconsideriamo due termini: contenitore – contenuto. Nessuna forma di razionalizzazione. E come un sasso lanciato in un lago lascia la superficie appena increspata per qualche momento, le parole cadono, sprofondano, si inabissano.

E’ il momento di prendere contatto con il corpo e con il respiro. Per sperimentare la stretta connessione tra i due e verificare quanto la direzione degli occhi condizioni azioni e pensieri, dirigiamo lo sguardo all’addome prima, al torace poi. Non impieghiamo molto a scoprire che il respiro si è spontaneamente installato là dove la vista si è orientata. Seduti a terra con le gambe distese ci lasciamo accarezzare da un’onda lieve, che risale dai piedi al bacino durante l’inspiro e scende dal bacino ai piedi durante l’espiro… Lo sguardo segue questo andirivieni… L’onda viene, l’onda va… L’inspiro sale, l’espiro scende…

E poi viene il momento di incontrare una delle molte voci della saggezza senza tempo:

“[…] Il cervello è un oggetto percepito come sono percepite le orecchie. E’ una sensazione come si può sentire la mano. Quando esplorate la sensazione delle vostre mani, accedete a differenti livelli di sensazioni. E’ lo stesso con il cervello. 

Il cervello è in un certo modo dipendente dagli altri organi, in particolare dagli occhi. Quando guardiamo le cose con lo scopo di scegliere, come facciamo di solito, questo lede il cervello. I nervi ottici sono molto vicini al cervello; così, quando gli occhi sono sotto tensione, anche il cervello lo è. Lasciar andare le tensioni negli occhi e nel cervello è una scienza che si deve imparare. Il lasciar-andare vi porta ad uno stato di disponibilità. Siete pronti, disponibili, innocenti in uno stato di accoglienza. 

[…] Sentendo il cervello, sentiamo prima il suo peso. Allora, perde ogni sostanza, e abbiamo la sensazione come se non ci fosse più la tesa. La testa è completamente in espansione e scompare. Quando la testa è veramente sentita, la maggior parte degli organi è completamente rilassata, specie gli occhi, che sono sempre in procinto di scegliere e di cercare sicurezza. 

Se non potete sentire il cervello subito, cominciate con gli occhi. Sentite la loro cavità e seguite il nervo ottico penetrare il cervello. Quando il cervello sarà rilassato,si avrà una sensazione di spazio attorno a lui. Fatene un oggetto della vostra coscienza e vi dissolverete nello spazio. Alla fine c’è una fusione tra l’osservatore e ciò che è osservato e non c’è che presenza.” – Jean Klein, Sentire il cervello

Giunge il momento di esercitare la propria attitudine ad un atteggiamento meditativo.

Seguendo gli insegnamenti di Eric Baret, torniamo al corpo, diventando attenti alla sensazione degli occhi, al loro peso. Questa volta li lasciamo sprofondare verso l’interno, precipitare lungo un pozzo in direzione del cuore. L’evocazione di paesaggi pregni di colore fornisce lo spunto per lasciarci invadere, attraverso la cavità delle orbite, dal rosso, dal blu, dal verde dal giallo e dal bianco. Quando il corpo intero ha sperimentato il colore, c’è ancora margine per sperimentare quella che è la sensazione del colore… Poi tutto si fa trasparenza pura.

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Letture e spunti Maestri

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Consideriamo due termini: contenitore – contenuto. Nessuna forma di razionalizzazione. E come un sasso lanciato in un lago lascia la superficie appena increspata per qualche momento, le parole cadono, sprofondano, si inabissano.

E’ il momento di prendere contatto con il corpo, di riconoscerlo in tutta la sua pienezza, di lasciarlo deporre, crollare come crollerebbe un castello di di sabbia. Una voce accompagna quieta verso questo intimo incontro affinché possa realizzarsi uno stato di silente e pacifica resa.

E’ tempo di ascoltare il silenzio.

E poi viene il momento di incontrare una delle molte voci della saggezza senza tempo:

“Quando i muscoli sono sentiti, sono liberi da tutti i condizionamenti, perché la sensazione libera le tensioni e le reazioni. I muscoli sono ricondotti al loro stato naturale. Potete sentire il cervello nello stesso modo, anche se questo è ignorato in neurologia. Quando il cervello è sentito, si distende completamente e tutte le sue vibrazioni rallentano. Quando il cervello è profondamente disteso, non c’è più localizzazione; così non ci può essere concettualizzazione. Non potete più pensare, perché pensare è una localizzazione, principalmente situata nella regione frontale. Così non è necessario difenderci dal pensare, ma semplicemente arrivare allo stato assoluto di rilassamento del cervello. 

Le funzioni e le attività appartengono alla mente e la mente funziona nello spazio-tempo. Nel rilassamento profondo, siete liberi dal pensiero e allora siete liberi dallo spazio e dal tempo che non sono che dei pensieri. Quando siete liberi dallo spazio e dal tempo, non c’è che una costante presenza che non può essere trovata, descritta o localizzata. 

[…] è una presenza costante, dove nessuno, niente, è presente. E’ pericoloso esprimerlo anche poeticamente, ma l’espressione più appropriata per me è che è una costante corrente d’amore. Quando il cervello è veramente sentito, siamo distolti dalle fissazioni, dalle localizzazioni nel cervello. Abbiamo l’impressione di essere in espansione nel nostro corpo. Questa sensazione d’ espansione è l’inizio della meditazione. La meditazione non è che l’atto di rilassare il cervello che fa sempre qualcosa. Esattamente come possiamo liberare i muscoli dai condizionamenti, dai residui del passato, allo stesso modo possiamo liberare il cervello dalle funzioni e dalle attività. 

[…] Ci sono numerosi “trucchi” per fermare il pensiero, ma creano solamente una fissazione su qualche oggetto sottile, mentre la meditazione è completamente senza oggetto. La meditazione non comincia con la ricerca di uno stato. Questo non-stato è la corrente, la presenza che non è toccata dal funzionamento mentale. E’ solo l’ignoranza che attribuisce questa presenza, questa gioia, all’assenza d’oggetto. Se restate convinti che la tranquillità si trova nell’assenza d’oggetto, non diventerete mai liberi dalla dualità. La presenza è al di là della presenza o dell’assenza d’oggetto, al di là della mente, al di là del cervello. Tutto questo appare e scompare nella presenza senza limite che non è oggetto. 

Quando sentite il cervello come sentite i vostri muscoli, non è con l’intenzione d’interferire con il funzionamento del cervello: è molto semplicemente la sensazione, sentire il cervello senza cercare risultato. E’ uno sguardo innocente che libera il cervello dal cervello. Questo vi porta a essere libero dal meditante, da chi agisce e che non è altro che una costruzione mentale. 

[…] La maggior parte delle tecniche, di cui molti sono pratici in certi monasteri, mettono l’accento sull’arresto della funzione del cervello. Possiamo allora essere liberi dai contenuti del cervello, ma i contenuti non sono il problema. La vera finalità non è di esplorare i contenuti, ma il contenitore. Il contenitore non è l’assenza del contenuto, come il gusto della bocca stessa non è l’assenza di altri gusti. 

[…] il cervello funziona quando c’è bisogno di funzionare. Se è chiamato a pensare, pensa. Quando non c’è niente da pensare, non c’è nessun ruolo da assumere. Il cervello è un organo come un altro. Nello stato di distensione, il cervello è vuoto, ma voi siete talmente abituati ad avere un oggetto nella vostra mente che speso ignorate il vuoto della mente. 

[…] Generalmente conosciamo solo la coscienza come un oggetto, essere coscienti di qualcosa, anche se è la coscienza della tranquillità, della pace e così via. Sono ancora oggetti, stati, che vi mantengono nella cornice della dualità. La coscienza senza oggetto vi è sconosciuta; tuttavia è ciò che vi è più vicino, la vostra vera natura, ciò che siete. Questa presenza non può essere sperimentata come gioiosa o senza gioia. E’ senza nessuna qualità. Semplicemente è.” – Jean Klein, Sentire il cervello

Giunge il momento di esercitare la propria attitudine ad un atteggiamento meditativo.

Seguendo gli insegnamenti di Eric Baret, torniamo al corpo, diventando attenti alla sensazione degli occhi, al loro peso, al senso di compressione che vi alberga. E poi lasciamo che i globi oculari, come due biglie di piombo, colino davanti alle orbite, richiamati dalla gravità verso il suolo. Sentiamoli appesi, come si vede in certi dipinti tantrici del buddismo tibetano, coscienti delle orbite vuote, spaziose, profonde come immense caverne. 

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Storie, racconti e poesie

Lo scarabeo

“Un uomo era incarcerato a vita all’ultimo piano di una torre. Sua moglie, che non poteva vivere senza di lui, decise di aiutarlo a fuggire. Prese uno scarabeo e, dopo aver legato con gran delicatezza un filo di seta all’insetto, ne bagnò le antenne con una goccia di miele. Poi lo depose ai piedi della torre, con le antenne rivolte verso l’alto. Desideroso di raggiungere il miele, l’insetto si arrampicò fino a raggiungere la finestra del prigioniero. Questi, liberato lo scarabeo, tirò il filo di seta. All’altra estremità era legato un filo più robusto. A questo seguiva uno spago, e allo spago una cordicella, e alla cordicella una solida fune, che l’uomo legò all’interno della sua cella e usò per calarsi dalla torre e fuggire via insieme alla moglie.” – Alejandro Jodorowsky, La risposta è la domanda

Quante volte nella vita ci è capitato di trovarci di fronte ad una situazione che ci è sembrata inaffrontabile, ingestibile, decisamente “troppo” per noi? La sensazione che probabilmente abbiamo vissuto è stata quella di essere completamente sopraffatti, impotenti e l’esito finale è magari stato caratterizzato da grande frustrazione.

La prossima volta potremmo considerare l’ipotesi di suddividere la “macro-questione” in “micro-questioni”. Potremmo scoprire che i passi da compiere per affrontare le cose sembrano farsi più leggeri, a misura d’uomo… Non un’unica lunghissima e pesantissima fune, ma un filo di seta, seguito da uno spago, poi da una cordicella, fino ad arrivare, con serena tranquillità, a tenere tra le mani una solida fune.

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Pranayama

Murcha Pranayama

“Deliquio”

Le condizione indotta dall’esecuzione di questo pranayama ne giustifica il nome. Produce infatti una sensazione prossima allo svenimento, in cui la testa risulta vuota, leggera, gradevolmente stordita. Le fonti non ne forniscono una descrizione univoca e le diverse scuole suggeriscono modalità di esecuzione differenti.

“Al termine dell’inspirazione, eseguendo molto fermamente il jâlandhara, si espiri lentamente: ciò è chiamato mûrcchâ, che dà gioia e affievolimento (mûrcchâ) dello spirito.” – Svatmarama – La lucerna dello hatha-yoga (Hatha-yoga-pradîpikâ, II, 69) a cura di Giuseppe Spera (Ed. Magnanelli)

Tecnica di esecuzione:

  • sedete in una qualsiasi posizione meditativa;
  • mantenete la testa e la colonna vertebrale erette;
  • rilassate il corpo e osservate il respiro naturale farsi lento e profondo;
  • inspirate attraverso le narici;
  • mantenendo la ritenzione del respiro (kumbhaka) praticate la contrazione della gola (jalandhara-bandha);
  • mantenendo la contrazione della gola (jalandhara-bandha), espirate lentamente dalle narici;
  • a polmoni vuoti, rilasciate la contrazione della gola e riportare il capo in posizione neutra;
  • fate esperienza della leggerezza e della calma nella mente e nel corpo.

“Eseguita senza sforzo la ritenzione del respiro (kumbhaka), si fissi la mente (manas) sullo spazio tra le sopracciglia, distogliendola da ogni oggetto: questo induce un piacevole deliquio. Dall’unione della mente (manas) con il sé (atman) sgorga infatti la beatitudine.” – Insegnamenti sullo Yoga (Gheranda-samhitâ, V, 73-77) a cura di Stefano Fossati (Ed. Magnanelli)

Benefici:

  • induce alla concentrazione;
  • interiorizza la mente;
  • allevia tensioni ed ansia.