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Maha mṛtyunjaya mantra: il mantra della grande vittoria sulla morte

ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम्
उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्


Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhim puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt

Rg-Veda (VII, 59,12)
Preghiamo il Signore dei tre spazi, che si trova ovunque come una fragranza e ci nutre. Possa egli liberarci dalla paura della morte, come il frutto maturo che si stacca dalla pianta (senza dolore), e farci acquisire il senso dell’immortalità. 

Oppure:

Veneriamo il Signore dai tre occhi profumato, che dà la forza/incrementa la prosperità; come un melone (maturo), dai legami della morte possa (io) essere liberato/staccato, ma non dall'immortalità. 

O, nell’interpretazione del Dalai Lama:

Prego l'Essere Divino che si rivela nel profumo del fiore della vita e che nutre in eterno la pianta della vita. Come un bravo giardiniere che coglie con abilità il frutto maturo, mi liberi da ogni paura a livello fisico, psichico e spirituale. Che l'imperituro Dio abiti in me, mi liberi da morte, decadimento e malattia. Che mi conduca al Regno Divino e trasformi la mia morte in Vita Eterna. 

tryambakaṃ: Signore dai tre occhi (e quindi tre spazi: esterno, interiore, del sé), epiteto di Rudra Shiva
yajāmahe: adorare, pregare
sugandhiṃ: fragranza
puṣṭivardhanam: sostiene e nutre
urvārukam: frutto (cocomero, melone)
iva: come
bandhanān: schiavitù, legame
mṛtyor: morte
mukṣīya: liberare
māmṛtāt: non morte, immortalità

Il Tryambaka Mantra è noto anche come Maha Mrytyunjaya Mantra perché aiuta chi lo recita a superare la paura della morte, ma è anche conosciuto come Markandeya Mantra dal nome del suo rishi, cioè di colui che, secondo la tradizione, lo ricevette e lo recitò per primo. È considerato secondo per importanza solo al Gayatri Mantra.

Si tratta di un mantra curativo e nutriente. La sua vibrazione ci collega al guaritore interiore e rafforza la volontà, il coraggio e la determinazione, risvegliando la forza terapeutica più intima. Conseguentemente risulta un valido supporto durante l’assunzione di medicinali, erbe curative, cibo, in quanto ne rafforza gli effetti.

Shiva stesso nel Netra Tantra parlando con la sua sposa Parvati, cita questo mantra, che donerebbe la capacità di raggiungere la libertà ed eliminare qualsiasi forma di sofferenza in quanto distruttore di tutte le malattie e fonte di salute, benessere e longevità, nonché di protezione a livello fisico e mentale.

L’immortalità cui si fa riferimento non è da intendere, ovviamente, come annullamento della morte, ma come consapevolezza che il proprio Sé è imperituro. Anche Patanjali, quando enuncia i klesha (afflizioni) include tra essi anche abhinivesha (sete di esistenza, paura della morte) affermando: “L’attaccamento alla vita è la più sottile delle sofferenze. Lo si ritrova perfino nel saggio” (YS. II,9).

Il miglior momento per recitarlo è di sera, infatti il momento in cui il giorno si trasforma in notte può simboleggiare il passaggio dalla vita alla morte.

Forse può risultare curioso sapere che la tradizione popolare ne suggerisce la ripetizione nel giorno del compleanno per almeno 50.000 volte; questo, congiuntamente ad un’offerta ai poveri, porterà salute, pace, prosperità e moksha, la liberazione. In India si usa recitare il Tryambaka mantra quando un bambino raggiunge il suo 1° compleanno, proprio per augurargli una vita lunga, senza malattie e dedita alla spiritualità.

La leggenda di Markandeya racconta di un uomo saggio di nome Mrikandu e di sua moglie Marudvati che vivevano in santità, praticando meditazioni e rituali con umiltà e devozione. Sebbene avessero raggiunto una grande saggezza e conoscenza spirituale, non avevano figli. Durante una meditazione eseguita proprio con l’intenzione di veder esaudito questo loro desiderio, ebbero l’esperienza di una visita da parte del divino Shiva in persona che offrì loro di scegliere tra un figlio virtuoso e pio che sarebbe vissuto solo 16 anni e un figlio ottuso e malizioso che sarebbe vissuto fino a 100 anni. Come previsto da Shiva, essi scelsero il figlio divino e quando nacque gli diedero nome Markandeya. Questa coppia, molto avanzata spiritualmente, aveva molto da insegnare al figlio, compreso il Gayatri mantra e la puja (cerimonia rituale) a Shiva che egli eseguiva ogni giorno con grande devozione. Nel corso dei suoi primi 15 anni, gli diedero tutti gli strumenti necessari per raggiungere la conoscenza spirituale, ma non gli rivelarono mai la brevità della sua vita. Il giorno del suo 16° compleanno, Markandeya finì la sua meditazione su Gayatri e incominciò come al solito la puja. A quel punto sentì che il prana cominciava a lasciare il suo corpo e capì immediatamente che stava per morire. Pieno di paura e di dolore, pensò a Shiva, ai suoi genitori e abbracciò lo Shivalinga, il simbolo dell’energia e della forma di Shiva recitando il Tryambaka Mantra. Yama dio della morte, fece scattare il suo cappio intorno al collo del giovane saggio, che circondava anche il lingam. Adirato, Shiva emerse dal lingam, attaccando ed uccidendo Yama per salvare il suo devoto. Successivamente Shiva, su richiesta dei deva, resuscitò Yama, a condizione che Markandeya rimanesse sedicenne per sempre. Ancor oggi nei testi classici, si fa riferimento a Markandeya come ad uno dei maestri sempre vivi che dimorano tra le cime dell’Himalaya.

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L’indecidibilità e gli opposti

Il pensiero categorizza diversi tipi di opposizione: il contrario, che nega il termine dato e si colloca all’estremo opposto di una gradazione interna al genere (bianco/nero, giusto/sbagliato, ecc.) ed il contraddittorio, che nega il termine dato e rimanda a tutto ciò che quel termine non è, sia all’interno che all’esterno del genere di cui si tratta (bianco/non bianco, giusto/non giusto, ecc.).

“L’approccio sensoriale ha una parte importante perché l’accento è messo sul sentito profondo piuttosto che sul pensiero. Molte scuole mettono l’accento sul pensiero. L’approccio dello śivaismo del Kaśmīr mette l’accento sul sentire profondo perché questo è globale, mentre il pensiero è frammentato. Non si può pensare al bianco senza pensare al nero, non si può pensare alla collera senza pensare alla tranquillità. Si pensa sempre in maniera duale, mentre si può avere una sensazione globale al di là degli opposti. È per questo che, di tutti i sensi esplorati, è sul sentito profondo che si mette di più l’accento. Il sentire profondo non è il sentire. Il sentire è un senso come un altro, ma il sentito arriva a essere il sentito profondo, che è totalmente globale. […] 
Il sentito profondo è laddove culminano i sensi. L’occhio vede, la pelle sente, l’orecchio intende, le narici odorano, ecc. Tutto questo è sormontato da ciò che si chiama il sentito profondo. Posso perdere la vista, non vedo più, ma sento profondamente; posso avere la pelle bruciata, non sento più, ma sento profondamente; posso strapparmi la lingua, non gusto più, ma sento profondamente, ecc.è un senso inerente al corpo che non può essere toccato dagli avvenimenti che invece toccano i cinque sensi. Questo sentito profondo globale è l’apertura verso la sensazione dell’energia. Questo sentito profondo ci fa osservare la pesantezza, la gravità, che in seguito ci fa sentire la leggerezza, l’espansione del corpo, la quale si trasforma in vibrazione dell’energia. È la porta diretta alla tranquillità. […] Non si cerca di manipolare l’energia come nello yoga classico. Non si cerca di risvegliare alcunché, ma si lascia che il corpo ritorni al suo stato naturale di energia. È un lavoro totalmente passivo.”

Passi da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga a cura di Marie-Claire Reigner

Il linguaggio verbale è strumento potentissimo e sublime, ma al contempo pone limiti e confini anche laddove la sostanza è illimitata e vasta.

“Il senso dell’unione col ‘Tutto’ non è però uno stato mentale nebuloso, una specie di trance in cui sia abolita ogni forma e distinzione, quasi che l’uomo e l’universo siano fusi in una bruma luminosa di pallido malva. Così come processo e forma, energia e materia, io stesso ed esperienza sono altrettanti modi di designare e guardare la stessa cosa, uno e molti, unità e molteplicità, identità e differenza non sono opposti che si escludono a vicenda: ciascuno è anche l’altro, come il corpo è l’insieme dei suoi organi. Scoprire che i molti sono l’uno e che l’uno è i molti significa rendersi conto che sono entrambi parole e suoni che rappresentano quanto è chiarissimo ai sensi e ai sentimenti, ma al tempo stesso è un enigma per la logica e la descrizione.”

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

C’è una forza in grado di conciliare gli opposti, integrarli. Ma, affinché tale forza possa agire, occorre non temere le dicotomie che la vita ci propone come esperienza, non rifuggere ciò che la società, la cultura di appartenenza o noi stessi etichettiamo come ”negativo”. E se anche a quella forza abbiamo bisogno di dare un nome, potrebbe trattarsi della parola ”Amore”.

“Finché si è motivati a divenire qualcosa, finché la psiche crede nella possibilità di sfuggire a ciò che essa è in questo istante, non può esserci libertà. Perseguiremo la virtù esattamente per lo stesso motivo per il quale perseguiremo il vizio, e bene e male si alterneranno come i poli opposti dello stesso cerchio. Il ‘santo’ che sembra aver soggiogato il proprio egoismo con la violenza spirituale lo ha solo nascosto. Il suo successo apparente convince gli altri che egli ha trovato la ‘vera via’ ed essi ne seguono l’esempio abbastanza a lungo perché la loro linea di condotta oscilli verso il polo opposto, quando la licenza diverrà l’inevitabile reazione al puritanesimo.
Certo, sembra il più abietto fatalismo dover ammettere che io sono ciò che sono, e che non vi può essere né via di scampo né divisione. Sembra che sia io ad aver timore, quindi a essere ‘bloccato’ dalla paura. Di fatto però sono incatenato alla paura solo fino a quando cerco di liberarmene. Se invece non cerco di liberarmene, scopro che nella realtà del momento non c’è niente di ‘bloccato’ o fisso. Quando acquisto la consapevolezza di questo sentimento senza dargli un nome, senza chiamarlo ‘paura’, ‘cattivo’, ‘negativo’, ecc., esso si trasforma istantaneamente in qualcos’altro e la vita avanza liberamente. Il sentimento non si perpetua più creando dietro di sé il senziente.
Ora riusciamo forse a vedere perché la psiche indivisa non sia spinta verso queste vie di scampo dal presente che di solito sono chiamate il ‘male’. L’ulteriore verità che la psiche indivisa è consapevole dell’esperienza come unità, del mondo come se stessa, e che l’intera natura della psiche e della consapevolezza è d’essere tutt’uno con quanto essa conosce, fa pensare a uno stato che di solito verrebbe chiamato amore. L’amore che si esprime in azione creativa è in effetti qualcosa di assai di più che un’emozione. Non è qualcosa che tu possa ‘sentire’ e ‘sapere’, ricordare e definire. L’amore è il principio organizzatore e unificatore che fa del mondo un universo e della massa disintegrata una comunità. È l’essenza stessa, il carattere stesso della psiche e si manifesta nell’azione quando la psiche è integra.”

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

L’esperienza vivificante di essere, al di là degli opposti, riconduce al fascino del mistero, laddove rinunciamo a qualsiasi forma di catalogazione e ci immergiamo nell’Assoluto senza forma.

La cultura occidentale divide i mondi tra finito e infinito, attribuendo al finito un carattere opaco e muto e all’infinito la trasparenza e il senso. Ma io, e forse tutti i bambini solitari, prediligevo il muto e vedevo attraverso l’opaco. Era la vita nuda e cruda, i fenomeni, che mi davano il senso piú alto del mistero; la trasparenza era guardare con simpatia nell’opaco. Giocare a nascondino era scoprire il mondo senza di me. Osservare gli animali era conoscere la natura del vivente e l’affidamento a qualcosa che ci sorpassa.
Nascosti da soli in un fitto di alberi siamo trasparenti eppure accolti, siamo un insieme privo di somiglianze e di peculiarità, vivi e basta.

Passi da Questo immenso non sapere di Chandra Candiani
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Essere aggrediti è un dono

Uno dei tranelli in cui facilmente incappa un certo tipo di praticante di yoga è quello di sentirsi più cosciente, più centrato, più equilibrato rispetto ad una certa umanità tendenzialmente gregaria ed appiattita su bisogni indotti dalla società del consumo. Brusco è il risveglio alla realtà del ginnico yogi nel momento in cui qualcuno lo deride, lo infanga, lo critica, ed un fiume di rabbia implacabile gli si riversa nelle vene.

A un certo punto non vi capiterà più di sentirvi aggrediti da chicchessia, compresi da quelli che vi aggrediscono. Più qualcuno vi aggredisce, più vi lasciate invadere da una forma d’affetto per lui. Vedrete la sua miseria, la sua tristezza, la sua problematica.
Nello spazio di apertura, essere odiato, che sia nell’istante o nel tempo, sviluppa automaticamente una forma d’affetto. Maggiore è l’odio, maggiore l’affetto. Quello che vi odia cerca l’amore che rifiuta a se stesso. Siete voi che lo portate poco a poco a vedere che l’amore che sente rifiutarsi da voi è in lui stesso; e che non ha bisogno di voi per trovarlo. È un processo organico, non pensato, inevitabile, che si compie in ogni istante e che bisogna riconoscere, altrimenti si dimora costantemente nella reazione.
La sera, vi togliete i vestiti per non coricarvi con abiti sporchi; vi lavate i denti, per addormentarvi senza tutte quelle impurità nella bocca; vi lavate il viso per la stessa ragione. Questo vi appare naturale. Nello stesso modo, prima di addormentarvi, deponete tutte le vostre aggressioni immaginarie della giornata. Se no, l’indomani, la giornata sarà dura.
Essere aggredito è il vostro dono per non addormentarvi.
È facile credersi tranquilli, fare dello yoga, essere saggi. Ma improvvisamente, vi si aggredisce, vi si detesta, vi si odia. Questo vi permette di svegliarvi alla vostra risonanza. Ciò attiva in voi l’amore? L’odio? Scoprite il vostro proprio funzionamento. Lo yoga è questo. Non è restare seduti come un paletto, ma osservare come si fa fronte all’istante. Scoprite che le aggressioni sono i doni più profondi della vita, perché più vi si aggredisce, più si sviluppa la vostra maturità. Le vite prive di aggressioni sono delle vite miserabili, e fortunatamente ciò non esiste.
Siate disponibili, non cercate di accomodare le cose, di reagire meno, d’essere più saggi. Sentite vivamente la vostra follia quando siete messi in questione. Prendete le vostre emozioni come oggetto di contemplazione, di studio, con affetto e pazienza.
Non aspettate nulla, non chiedete niente, tutto si fa da sé.

Passi da Lasciar libera la luna, Éric Baret

Preconcetti, abitudini, paure, ignoranza ci fanno a volte interpretare come aggressivi i comportamenti di chi ci circonda, anche quando uno sguardo più attento ed una sensibilità più fine potrebbero cogliere motivazioni insospettatamente amichevoli o di sostegno nei volti dei nostri presunti aguzzini.

L’opposizione del sapiente è meglio del sostegno dello sprovveduto
Una vipera s’introdusse nella gola di uomo addormentato in piena campagna.
Dall’alto della sua cavalcatura, un cavaliere assistette alla scena. «Se l’uomo continua a dormire verrà ucciso dal veleno della vipera. Non c’è tempo da perdere» pensò il cavaliere, che era un uomo di conoscenza.
In fretta e furia diede dei violenti scossoni all’uomo per svegliarlo. Dopodiché, raccolta una grande quantità di frutta fradicia sparsa a terra, costrinse l’uomo a inghiottirla. Tenendolo sempre immobilizzato lo costrinse poi a ingurgitare delle possenti sorsate d’acqua di una pozzanghera.
L’uomo, svegliatosi di soprassalto, non riusciva a capire ciò che stava succedendo. Piangendo, pregò quello che a lui parve un aggressore di smettere di torturarlo.
Ma il cavaliere continuò la sua operazione, finché l’uomo, spossato fisicamente, non diede di stomaco, rigettando le mele marce, l’acqua sporca e la vipera. Solo a quel punto realizzò ciò che era successo.
«Ti ringrazio» disse l’uomo appena salvato «ma c’era proprio bisogno di trattarmi in quel modo? Se mi avessi svegliato tranquillamente e spiegato che cos’era successo, avrei accolto meglio la tua operazione!».
«Questo è ciò che tu immagini, poiché vivi nella credenza che ciò che ti piace corrisponda a ciò di cui hai bisogno! Se ti avessi spiegato cos’era successo, forse non mi avresti creduto. Oppure te la saresti data a gambe, impazzito dallo spavento. O forse saresti rimasto paralizzato dal panico. O, ancora, avresti continuato a dormire come se niente fosse. E così non avremmo avuto il tempo né il modo di organizzare le circostanze adatte per portarti in salvo!» rispose il cavaliere che, rimontato in sella, se ne andò al galoppo.”

Passi da Il dito e la luna – 101 storie Sufi 

Siamo istruiti ed allenati a vivere ad un ritmo incalzante. Tutto è urgente, tutto veloce. Anche le nostre reazioni seguono le stesse dinamiche. Creare spazio, porre una distanza, anche minima, tra gli eventi e la nostra reazione ad essi, potrebbe costituire una chiave di volta.

Abbandonare la rabbia, una volta che ci siamo dentro completamente, richiede uno sforzo immenso. Molti di noi non sono capaci di compierlo sul momento. Il motivo è che, per la maggior parte del tempo, siamo incastrati nella nostra modalità di attacco. Possiamo sentire di essere aggrediti. I nostri sistemi sono pronti a reagire in fretta. Con anche solo un attimo di pausa, possiamo gradualmente abbandonare la nostra modalità di attacco e spostarci verso uno spazio tranquillo di presenza che rende possibile una reazione più compassionevole e appropriata.
La meraviglia di una pratica regolare della meditazione seduta è che ci aiuta a essere meno in modalità attacco-e-difesa prima che si verifichi la situazione che ci mette in agitazione. Così, in quel momento di offesa o di rabbia, siamo più capaci di fermarci e praticare. Siamo capaci di tornare più in fretta alla realtà. Magari sentiamo comunque che la vita ci sta aggredendo, ma conquistiamo la capacità di osservare che ci sentiamo così e tornare a quello che sta succedendo dentro di noi. La forza interiore necessaria per farlo è il frutto di una pratica ripetuta.

Passi da Meraviglia quotidiana, Charlotte Joko Beck

Ammettere di avere torto è una sorta di suicidio sociale, equivale ad annientare l’immagine del proprio io, a rinunciare ad una delle proprie maschere. Per salvaguardare la nostra identità siamo spesso noi stessi a trasformarci in spietati aggressori, sguainando la spada in difesa delle nostre presunte ragioni da difendere.

Se ti identifichi con una posizione mentale, nel caso in cui tu abbia torto, il tuo senso di identità basato sulla mente si sente gravemente minacciato. Perciò tu, in quanto ego, non puoi permetterti di sbagliare. Avere torto è come morire. Per questo motivo si sono combattute guerre e si sono interrotte infinite relazioni.
Una volta che hai eliminato l’identificazione con la mente, avere ragione o torto non fa più nessuna differenza per il tuo senso di identità, perciò non avrai più il bisogno compulsivo e profondamente inconsapevole di avere ragione (che è una forma di violenza). Puoi affermare chiaramente e con fermezza quel che pensi o ciò in cui credi, ma non lo farai in modo aggressivo né mettendoti sulla difensiva, perché a quel punto la tua identità deriverà da un luogo più profondo e autentico dentro di te, non dalla mente.”

Passi da Come mettere in pratica Il Potere di Adesso, Eckhart Tolle

Molte sono le esperienze, le persone o gli eventi che nella vita oggettivamente ci aggrediscono, attaccano, feriscono. Forse però vale la pena osservare come sia sempre e solo la percezione che noi abbiamo di esse e la reazione che mettiamo in campo a renderle intollerabili o, al contrario, parte del viaggio.

L’uomo dall’animo in pace non è in conflitto con nessuno.
Una volta un maestro e un suo allievo stavano tranquillamente passeggiando per strada, quando a un tratto un uomo, giunto alle loro spalle, si diresse verso il maestro accanendosi con ferocia. Dopo essere stato colpito energicamente, il maestro cadde a terra. L’uomo, soddisfatto della sua dissennatezza, se ne andò.
Dopo essersi rialzato, il maestro, un po’ zoppicante, proseguì la passeggiata senza neppure voltarsi indietro per individuare l’aggressore.
L’allievo, scosso dall’evento inspiegabile, chiese: «Maestro, ma chi era quell’uomo? Cosa significa tutto ciò? Perché vi ha aggredito?».
Accennato un sorriso, il maestro rispose: «Il problema è suo, non mio!».”

Passi da Il dito e la luna – 101 storie Sufi 
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Dissolversi nella meraviglia

Di fronte alla vastità del conoscibile non si può che essere colti da una sensazione di trasalimento, uno smarrimento carico di potenzialità inespresse.

Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere. […] Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell’esperienza non si può accumulare, l’esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c’è un cane spaventato dalla discontinuità dell’esperienza.

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora. La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.

Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.

Da Questo immenso non sapere di Livia Chandra Candiani

Vivere l’istante, essere totalmente presenti a ciò che è, semplicemente e senza commenti. Basta questo a trasformare un’intera esistenza.

La nostra vita succede di continuo. È una vita meravigliosa, fluida, mozzafiato, che ci piaccia o no. E tuttavia c’è, per tutto il tempo. E noi abbiamo un insieme molto rigido, ristretto e ridotto di comportamenti con cui cerchiamo di elaborare questa esperienza sterminata.

Il segreto di sperimentare la vita nella sua pienezza è semplicemente essere qualsiasi cosa stiamo sperimentando. Diciamo che per qualche minuto riusciamo a sentire quello che stiamo sentendo invece di rifuggirlo, pensarci, analizzarlo, prendere una pillola, ubriacarci o quello che facciamo pur di non essere costretti a sentirlo. Se riusciamo davvero a restare con questo, a mostrarci amichevoli e curiosi con la nostra sofferenza, possiamo cominciare a trasformarci. Quando viviamo con un pensiero dominante, la sofferenza si rinsalda. Non può muoversi. Non può fare niente. Rimane lì incastrata e ci fa impazzire.

Quando riusciamo a lasciar andare il desiderio personale, basato sul pensiero che le cose vadano in un determinato modo, per la prima volta la sofferenza che proviamo può cominciare ad aprirsi. E quando si apre, la sensazione diventa chiara e serena. E alla fine ci sono silenzio e meraviglia. In definitiva, non c’è niente: solo meraviglia. Sotto tutte le nostre difficoltà c’è questa fonte di silenzio, che è la vera saggezza. Comunque la vogliate chiamare, è lì.”

Da Meraviglia quotidiana di Charlotte Joko Beck

L’incontro con se stessi, così come l’incontro con l’altro, aprono panorami vastissimi ed inaspettati, purché ci si ponga nell’attitudine sincera e pulsante del ricercatore. Svestirsi delle numerose e svariate identità che ci attribuiamo per raggiungere quella nudità intima e disarmante che è il nostro nucleo più profondo è una danza stupefacente.

Non domandate all’altro di essere altra cosa che quello che è. Il suo problema, il suo funzionamento, la sua affermazione: è la vostra meraviglia. È straordinario vedere un essere umano: vedere come ci si è costruiti, come ci si è immaginati; la testa, le orecchie, il ventre, la voce, l’intelligenza, la viltà, l’odore che ci si è dati. Tutto questo voi ve lo siete dati: è il dono che vi siete fatti. Se incontrate un inconveniente nella vostra vita, è un dono che vi fate. Fino a che ciò non vi è chiaro, lo vivete come un antagonismo, lottate. Un giorno, voi vedete che quello che vi appariva come un dramma, profondamente, è il vostro dono.

[…]  È straordinario vedere! Vedere la natura, una foglia, sentire il vento, sentire un grido. Niente è più straordinario della vita. Credere che io abbia bisogno d’altro se non di questo straordinario regalo è una mancanza di rispetto per la bellezza della vita. Non ho bisogno d’altro che di una nuvola.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

Ci si può chiedere se la conoscenza possa prescindere dall’esperienza, se si possa comprendere davvero qualcosa senza sperimentarlo. Ma si è disposti a correre il rischio di rispondere a tali quesiti?

Un pupazzo di sale, dopo avere viaggiato per valli e per monti, giunse fino all’oceano. Lì, meravigliato da una bellezza e una vastità che non aveva mai visto prima, rimase in contemplazione.
«Dimmi, chi sei?» chiese il pupazzo di sale all’oceano.
«Chi assaggia conosce. Entra e comprenderai» rispose l’oceano.
Il pupazzo entrò quindi nell’oceano. E tanto più vi si addentrava, tanto più si scioglieva.
Un istante prima di dissolversi completamente, il pupazzo sorrise affascinato: «Ora comprendo chi sei!».
E svanì.”

Da Il dito e la luna – 101 storie Sufi

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Possa esserci…

Sarveśām Svastir Bhavatu
Sarveśām Sāntir Bhavatu
Sarveśām Pūrnam Bhavatu 
Sarveśām Mangalam Bhavatu
Sarve Bhavantu Sukhinaha
Sarve Santu nirāmayaha 
Sarve Badrāri Pasyantu 
Mā Kascidh-dhuhkha Bhāga-Bhavet
Om śānti śānti śānti

Possa esserci benessere/prosperità in tutti
Possa esserci pace in tutti
Possa esserci pienezza/completezza in tutti
Possa esserci successo spirituale in tutti
Possano tutti essere prosperi e felici
Possano tutti essere liberi dalla malattia
Possano tutti vedere ciò che è spiritualmente edificante
Che nessuno soffra
Om pace pace pace

Si ritiene che l’origine di questo mantra provenga dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, pur non nella sua forma attuale. Si tratta di un’invocazione di armonia e benedizioni per tutta la creazione (Lokakṣema).

Inviare auguri di bene, abbracciare virtualmente ogni creatura, accarezzare l’anima del mondo apparentemente scissa in innumerevoli individualità, ha il potere di ampliare il cuore, scaldarlo e ammorbidirlo.

Il canto del mantra e la vibrazione che esso produce diventano strumenti di pace, di fratellanza viva e pulsante, che annientano ogni sentimento di invidia e di gelosia.

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Il supremo dono

Ci sono momenti in cui, più che in altri, ci si affanna per inseguire la chimera del regalo perfetto, per gli altri o per noi stessi. Invariabilmente la scelta cade su un oggetto più o meno inutile e certamente lontano dall’essenziale. Quanto siamo in grado di riconoscere ciò che di prezioso è già in nostro possesso, costantemente disponibile?

“Restate tranquilli, non c’è niente da capire. In questo acquietamento potrete iniziare a lasciar vivere quel che è importante. […]

Un giorno non vi dissiperete più in libri, in insegnamenti o in seminari. Quel che è importante per voi siete voi stessi. È cosa gratuita; l’avrete sempre sottomano; non avrete nessun luogo ove andare a meditare, dove essere tranquilli. È il vostro dono ad ogni istante. Tornate a questo costante dono. […]  

Tornate alla vostra propria esperienza d’essere, che è costantemente disponibile. Nulla ve ne allontana. La cosa più profonda siete voi.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

E quante volte accade che ci si senta avviliti e frustrati nelle nostre aspettative a fronte di un dono ricevuto, ma percepito come inadeguato a noi, alla circostanza o al momento?

“All’età di otto anni sognate di possedere una macchina rossa e a vent’anni desiderate essere liberi da voi stessi. Sono dei simboli. […] Constatare che l’aspirazione profonda è smettere di pretendere e, nello stesso momento, lasciare che questa comprensione si elimini.

È importante svelare in noi quest’avidità di voler ricevere, prendere, essere. Sempre a mendicare come un cane che ha bisogno di un osso. “Voglio quello, se avessi quello, datemi quello…”, constatate il meccanismo. Si ha bisogno d’affetto, riconoscimento, rispetto, insegnamento, di possedere questo, quello… Si è sempre nell’atto di elemosinare, in tutte le direzioni.

Familiarizzarsi con questo funzionamento, senza commento. […] Non si tratta di colpevolizzare, ma di vedere come opero.

Quando chiedo, non posso ricevere. Più prendo coscienza della mia avidità, più me ne libero. Finchè voglio raggiungere, finchè aspetto qualcosa, quest’esigenza mi impedisce di ricevere. Non si può reclamare un dono, la grazia, la gioia. Non si può accogliere che quando c’è apertura.

[…] Rendersi conto della nostra insaziabilità è la cosa più grande.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret

Non desiderare niente è il supremo dono, quello che libera, alleggerisce, inebria.

“Riconoscere la cupidigia, osservare la domanda “ho bisogno”. A un dato momento, un’immensa risata mi viene al cuore quando sento salire in me il “ho bisogno”. Questa risata è la libertà. In questo spazio, più niente mi è necessario. Che resta? Il dono, senza azione di donare né nessuno che doni.

Donare rende felici; non ricevere. Ricevere ingombra, appesantisce, limita. Non voglio ottenere nulla. Non mi auguro iniziazioni, trasmissioni, insegnamenti: tutto questo è imbarazzante per me, mi stordisce, mi chiude. No, non desidero niente. Io mi riferisco a questo spazio, a questa risonanza.

Donare senza nessuno che doni. Quando dono, mi libero. Offrire porta libertà. La vita non è che dono, non c’è separazione.

Fino a che voglio prendere, ricevere, seguire un insegnamento, non posso che rifiutarlo pretendendo di desiderarlo. È un po’ come qualcuno che sollecita un’iniziazione, che reclama un regalo. Non si esige un regalo. Si è accessibili. L’iniziazione, l’insegnamento, il regalo arriva nell’istante di apertura, mai quando lo si reclama, quando lo si spera. Non c’è niente da desiderare. Nella non domanda, tutto è ricevuto. Finché sono in attesa, dico no.”

Da Lasciar libera la luna di Éric Baret
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Letture e spunti Mantra

La pienezza al di là da ogni dualità

oṁ pūrṇamadaḥ pūrṇamidaṁ pūrṇāt pūrṇamudacyate
pūrṇasya pūrṇamādāya pūrṇamevāvaśiṣyate
oṁ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ

Īśa Upaniṣad

Questa è l’invocazione con cui inizia l’Īśa Upaniṣad, che mette in evidenza due concetti fondamentali della tematica Vedānta: Quello e Questo. l’Īśa è riconosciuta come una delle Upaniṣad maggiori più antiche. Appartiene al capitolo XIV dello Yajur Veda “bianco” e rientra nella parte Mantra (rituale) del medesimo Veda. La sua datazione può essere fatta risalire al 700 a.C. Una possibile traduzione dell’invocazione sopra citata potrebbe essere la seguente:

Om!
Quello è Pienezza.
Questo è Pienezza.
La Pienezza nasce dalla sua Pienezza:
Tutto ciò che esiste è Pienezza.
Om! Pace, Pace, Pace.

Om, la vibrazione cosmica, è il mantra di Brahman, l’Assoluto, è il suono per eccellenza e saperlo far risuonare significa entrare in perfetta sintonia con Brahman.

Quello (adaḥ) si riferisce alla Realtà metafisica ultima, assoluta, al Brahman, il quale è al di la del tempo-spazio-causalità, sempre identico a se stesso. Brahman sfugge a ogni tentativo di definizione intellettuale, non rientra in alcuna categoria. La sua incondizionatezza non è minimamente toccata dal mondo dei nomi e delle forme che rappresentano solo ombre sullo schermo inqualificato. Brahman, per la sua intrinseca natura, rimane sempre Pienezza e Pace profonda, condizioni del vero Essere che non nasce e non muore; in Lui esistono tutte le infinite possibilità.

Questo (idaṁ) si riferisce a ciò che chiamiamo mondo manifesto, di cui l’uomo è parte integrante, caratterizzato dalle sei qualità: emergenza, esistenza empirica, crescita, maturità, malattia o declino e morte (considerate dal punto di vista empirico). Le innumerevoli forme universali (riflesso del Brahman), a qualunque dimensione possano appartenere, sono idee-fenomeni che nascono, crescono e svaniscono; ma l’Idea-essenza rimane Pienezza. Questo, l’apparenza fenomenica, non è pura illusione o allucinazione, come non è illusione o allucinazione il sogno notturno del dormiente; è solo quando lo confrontiamo con l’Incondizionato che diventa privo di qualsiasi valore. L’angoscia e l’affanno sopravvengono quando l’essere umano si identifica con le forme e, per ignoranza metafisica, tenta di trattenerle, di eternare ciò che non può mai essere eterno poichè l’intrinseca natura degli oggetti è caratterizzata dall’instabilità.

Nel considerare la manifestazione, si può dire che essa è pervasa da tre aspetti: Esistenza (sat), Coscienza (cit) e Beatitudine (ananda). In altre parole: vita, coscienza e amore. Brahman dimorante nel cuore di ogni individuo è chiamato atman, il Sé, il Testimone. La coscienza individuale che comprende se stessa come Pienezza assoluta non potrà più modificarsi, né identificarsi con ciò che non è.

La Īśa Upaniṣad affronta il fondamento della speculazione indiana, l’aspetto cioè della dualità-polarità. Tutte le dualità sono limitazioni e prigioni; esse non sono né reali né non-reali, dipende dal punto di vista da cui ci si pone. Di là da ogni dualità esiste l’Unità e dietro questa il sostrato da cui emerge l’Uno ontologico.

Fonte: CINQUE UPANISAD Isa – Kaivalya – Sarvasàra – Amrtabindu – Sira, Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael, Edizioni Asram Vidya

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Letture e spunti Maestri Storie, racconti e poesie

Dispiegare le ali e prendere il volo

Eccoci: donne e uomini con un corpo strettamente connesso alla terra, con membra pesanti che ci ancorano al suolo. Ed è forse anche per questo che siamo affascinati dall’idea del volo.

È significativo che Viṣṇu dorma su un serpente e cavalchi un’aquila [Garuḍa, n.d.r.]. I serpenti e le aquile sono infatti nemici nati; il serpente mangia le uova dell’aquila, e l’aquila caccia il serpente. Tuttavia, Viṣṇu convive sia con il predatore sia con la preda, ed è per questo che è il custode. Conosce il valore del serpente e dell’aquila e non preferisce l’uno all’altro, perché sa che ognuno di essi svolge un ruolo importante nel cosmo. Garuḍa evoca la visione a volo d’uccello, lo sguardo strategico dell’umanità, invece il serpente incarna la visione rasoterra, tattica, degli esseri umani. Così, Viṣṇu ha sia una visione ampia sia una visione focalizzata del mondo, il che fa di lui il grande osservatore e custode di tutte le cose.

Da Yoga e mito di Devdutt Pattanaik

Ma quando viene a mancare il terreno sotto i piedi, allora imparare a volare diventa un’esigenza, una via d’uscita.

PC: Lo spirito è tutto.

TS: Cosa vuoi dire?

PC: Credo che un altro modo per dirlo sia che l’attitudine è tutto. […] È vedere il bicchiere mezzo pieno. E in ciò che accade c’è sempre un potenziale per crescere.
Questo non significa sentirsi bene o male, ma andare oltre queste etichette di bene e male. Puoi sperimentare la tua vera natura come vasta, aperta, nuova, spassionata e non presa da queste etichette che mettiamo sulle cose.
Nel processo di invecchiamento lo spirito è tutto. Guardare alle cose come positive, guardare avanti – proviamo a usare la parola avanti invece di positivo, perché ciò include qualsiasi cosa possa accadere. Invece di andare indietro cercando di trovare queste piccole isole di sicurezza che continuano a venir meno, impari invece a volare o a fluttuare e a stare bene nel senza forma, senza terreno sotto i piedi, nell’aperta indeterminatezza delle cose, che è ciò che sei sempre stata.
Non sai mai cosa stia per accadere, e passando da un momento all’altro non sai mai chi sei. Tutto accade piano piano. Vedi, per me, a questo punto, è semplicemente elettrizzante come tutto continui ad accadere. Persino la noia accade.”

Da Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio di Pema Chödrön

E chi più dei poeti può insegnarci a librarci in alto, ad adottare prospettive inattese ed ardite?

E poi la vita ci insegna che bisogna sempre volare in alto. Più in alto dell’invidia, più del dolore, della cattiveria… Più in alto delle lacrime, dei giudizi. Bisogna sempre volare in alto, dove certe parole non possono offenderci, dove certi gesti non possono ferirci, dove certe persone non potranno arrivare mai.

Alda Merini

Ho bisogno di alleggerire le spalle, perché è da troppo tempo
che sono cariche di pesi che non ho voluto e non ho chiesto.
E poi sotto ci sono le mie ali. Ci sono io, che ho bisogno di volare.

Alda Merini

Gabbiani

Non so dove i gabbiani
abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua
ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi
amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Vincenzo Cardarelli

Piegare le ali
distendere le ali
sprimacciarsi
becchettare
buttarsi all’aria
posarsi
mettere il capo sotto l’ala
abbandonarsi
al governo del vento
contrastare l’ora del buio
con stracci di voce
nell’aria blu.
Farsi un nido
ramo su ramo
filo per filo
abbandonarlo
migrare
tornare
fissare un punto in aria
chinare il capo
aprire il becco
aspirare
il cielo
disobbedire agli angeli
e agli astronauti
farsi terra e polvere
giú giú
restituirsi
a vermi erba e assenza
di gravità:
leggero leggerissimo
chi cade.

Da Fatti vivo di Chandra Livia Candiani

Ed in fondo ogni ricercatore auspica di poter assistere al misterioso ed ipnotico volo d’uccelli in grado di aprire le porte della comprensione profonda, del Sé libero dallo spazio e dal tempo.

Un mutamento improvviso accadde una sera sul lungomare di Bombay. Stavo guardando gli uccelli volare, senza formulare un pensiero o un’interpretazione, quando fui completamente preso da essi e avvertii che ogni cosa stava accadendo dentro di me. In quel momento conobbi me stesso consapevolmente. La mattina successiva seppi, di fronte alla molteplicità della vita quotidiana, che «essere comprensione» si era determinato. L’auto-immagine si era totalmente dissolta, e libero dal conflitto e dall’interferenza dell’immagine dell’io, tutto ciò che accadeva apparteneva all’essere consapevolezza, alla totalità. La vita scorreva senza essere attraversata dalle correnti dell’ego. La memoria psicologica, il piacere e il dispiacere, l’attrazione e la repulsione, erano svaniti. La presenza costante, che chiamiamo il Sé, era libera da ripetizione, memoria, giudizio, comparazione e valutazione. Il centro del mio essere era stato proiettato spontaneamente fuori dal tempo e dallo spazio in una calma senza tempo. In questo non-stato dell’essere la separazione tra «tu» e «io» svaniva completamente. Nulla appariva fuori. Ogni cosa faceva parte di me, ma io non ero in essa. C’era soltanto l’unità.

Conobbi me stesso nell’accadimento presente, non come un concetto, ma come un essere senza localizzazioni nel tempo e nello spazio. In questo non-stato c’era libertà, piena gioia senza oggetto. C’era puro ringraziamento, senza un oggetto di cui ringraziare.

Non era un sentimento affettivo, ma una libertà da ogni affettività, una freddezza prossima al calore.

Da La naturalezza dell’essere di Jean Klein
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Letture e spunti Maestri

Il principiante e l’uomo di seconda mano

Quante volte incontriamo negli altri o adottiamo noi stessi l’atteggiamento saccente di chi già è convinto di sapere, di conoscere? Se volessimo dissetarci con un bicchiere d’acqua ristoratrice, ma ne trovassimo uno già colmo di liquido stantio, non getteremmo il contenuto per versarvene di nuovo, fresco ed effervescente?

La gente dice che praticare lo Zen è difficile, ma fraintende il perché. Lo Zen non è difficile perché è duro sedere con le gambe incrociate nella posizione del loto, o ottenere l’illuminazione. È difficile perché è arduo mantenere pura la nostra mente e pura la nostra pratica nel suo senso fondamentale. […] In Giappone abbiamo un’espressione, shoshin, che significa “mente di principiante”. Il fine della pratica è sempre quello di conservare la nostra mente di principiante. […] Per gli adepti zen la cosa più importante è non essere dualistici. La nostra “mente originaria”’ racchiude tutto in sé. Dentro di sé è sempre ricca e autosufficiente. Non dovete perdere lo stato mentale di autosufficienza. Ciò non significa una mente chiusa, bensì una mente vuota e pronta. Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche. […] Se discriminate troppo, vi limitate. […] Se la vostra mente si fa esigente, se bramate qualcosa, finirete per violare i vostri stessi principi: non mentire, non rubare, non uccidere, non essere immorali, e così via. Se conservate la vostra mente originaria, i principi si conserveranno da soli. Nella mente di principiante non si trovano mai pensieri del tipo: “Io ho ottenuto qualcosa”. Ogni pensiero egocentrico limita la nostra vasta mente. Quando non abbiamo alcun pensiero di conseguimento, alcun pensiero di un sé, allora siamo dei veri principianti. Allora possiamo realmente imparare qualcosa. La mente di principiante è la mente della compassione. Quando la nostra mente è compassionevole, diventa sconfinata. […] Dunque la cosa più importante è conservare sempre la mente di principiante. […] È  questo anche il vero segreto dell’arte: essere  sempre un principiante. […]

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Quando le restrizioni fisice, mentali, emotive non sono più vissute come limiti, ma come ambito stesso della pratica, opportunità di indagine e scoperta, nasce un’esperienza davvero nuova e potenzialmente illuminante.

Noi diciamo che la nostra pratica deve essere priva di idee di conseguimento, priva di qualsiasi aspettativa, persino in merito all’illuminazione. […] Fermare la mente non significa fermare le attività mentali. Significa che la mente pervade il corpo intero. La mente segue il respiro. […] Con la mente intera sedete con le gambe doloranti senza esserne disturbati. Ciò significa sedere in meditazione senza alcuna idea di conseguimento. All’inizio avvertirete una certa restrizione nella posizione fisica, ma quando non siete più disturbati dalla restrizione, avete scoperto il significato di “vuoto è vuoto e forma è forma“. Quindi trovare la vostra propria via sotto una certa restrizione è la via seguita dalla pratica. […]  Quando le restrizioni che avete non vi limitano più, allora parliamo di pratica. […] Per il principiante praticare senza sforzo non è vera pratica. Per il principiante la pratica richiede grande sforzo […] Ma se voi semplicemente fate del vostro meglio nello sforzo di continuare la pratica con tutta la vostra mente e tutto il vostro corpo, senza idee di conseguimento, allora qualsiasi cosa facciate sarà vera pratica. Il vostro intento dovrebbe essere semplicemente continuare. Quando fate qualcosa il vostro intento dovrebbe essere semplicemente farla e basta. […] Dopo un po’ di tempo che praticate, vi accorgerete che non si possono fare progressi rapidi e straordinari. […] Anche se vi sforzate moltissimo, progredirete sempre soltanto un po’ per volta. […] Perciò non c’è alcun bisogno di preoccuparsi dei progressi da fare. […] Non ci aspettiamo nemmeno di progredire. Basta essere sinceri ed esercitare pienamente il proprio sforzo ad ogni istante. Non c’è alcun Nirvana al di fuori della nostra pratica, distinto da essa.

Da Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen di Shunryu Suzuki-roshi

Se la nostra idea di progressione si serve della ripetizione per migliorare di volta in volta la performance, eccoci scivolare nel conosciuto, allontanarci dal qui e ora fatto di prime esperienze che sono inesorabilmente anche le ultime (perché mai ci si può bagnare nelle stesso fiume).

[…] si lavora senza memoria. Ogni volta che il movimento è fatto, è la prima e l’ultima volta. Questo bruciare della memoria è essenziale per evitare di essere nella ripetizione. Non può esservi progressione possibile poiché è sempre la prima volta. Non si è mai più lontani o meno lontani, più vacanti o meno vacanti della volta precedente. Si esplora quel che è lì, si è come si è. Non è in rapporto con la seduta precedente né con la seguente. Ciò permette di attraversare una forma di progressione immaginaria. […] A livello del lavoro, è come un pianista che suona un pezzo di musica. Durante mesi, suona sempre lo stesso pezzo. Il vicino, che non è musicista, ha l’impressione che sia la stessa ripetizione. Per il pianista ogni giorno è nuovo, perché ogni volta il suo tocco sarà cambiato, ogni volta l’umidità farà sì che il piano risuoni con una sonorità differente, eccetera. Per noi è la stessa cosa. Il corpo è uno strumento di musica. Ogni volta che il corpo è utilizzato, si scopre una risonanza differente rispetto all’ambiente. Ogni volta che sollevo il braccio, che il busto scende in avanti, è una cosa nuova, una nuova esperienza. Non è una ripetizione, non si cerca di andare sempre più lontano e di meglio in meglio. Ogni volta, si riparte da zero. È sempre la prima volta. Nello stesso tempo, è sempre l’ultima volta. È per questo che dopo il movimento occorre lasciare che esso muoia, perché non vi sia memoria. L’indomani, lo stesso movimento è rifatto, e non è lo stesso, è un altro che gli assomiglia dall’esterno, ma per colui che sente è sempre nuovo. In questa novità, il bisogno di cambiare la posa si smorzerà.

Da Éric Baret 250 Domande sullo Yoga di Marie-Claire Reigner

È solo nella più disorientante assenza di riferimenti che può esprimersi la vera creatività. Ecco allora che dallo spaesamento può sorgere la lucidità, dallo smarrimento la centratura.

La mente, che è di solito pigra e indolente, trova facile seguire quello che qualcun altro ha detto. Il seguace accetta l’“autorità” come mezzo per ottenere ciò che viene promesso da un particolare sistema filosofico o di pensiero; egli vi si aggrappa, ne dipende e quindi ne rafforza l’“autorità”. Un seguace dunque, è un uomo di seconda mano; e la maggior parte della gente è del tutto di seconda mano. Possono credere di avere qualche idea originale sulla pittura o sulla letteratura o su altro, ma nell’essenza, dal momento che sono condizionati a seguire, a imitare, ad adeguarsi, sono diventati esseri di seconda mano, assurdi. Questo è un aspetto della natura distruttiva dell’autorità. Come esseri umani, seguite psicologicamente qualcuno? Non parliamo dell’obbedienza esteriore, del seguire le leggi – ma interiormente, psicologicamente, seguite? Se lo fate allora siete essenzialmente di seconda mano; potete fare ottimi lavori, condurre una buona vita, ma tutto ciò ha pochissimo valore. C’è anche l’autorità della tradizione. Tradizione significa: “trasportare dal passato al presente” – tradizione religiosa, familiare, razziale. E c’è la tradizione della memoria. […] Una volta istituito un modello, la mente lo ripete. […] Ma tutto si è trasformato in tradizione e non scaturisce più dalla prontezza, dall’acutezza e dalla chiarezza. La mente che abbia coltivato la memoria, agisce in base alla tradizione come un computer – ripetendo ancora e ancora. Non può mai ricevere alcunché di nuovo, o ascoltare in modo del tutto diverso. […] Così ci si chiede: “Che debbo fare?”, “Come posso sbarazzarmi del vecchio meccanismo, del vecchio nastro?”. Si può sentire il nuovo solo quando il vecchio nastro taccia del tutto senza sforzo, quando si è seri nell’ascoltare, nello scoprire, e si può dare tutta la propria attenzione. […] Come può un cervello, una mente così condizionata dall’autorità, dall’imitazione, dal conformismo, dall’adattamento, ascoltare qualcosa di totalmente nuovo? Come si può vedere la bellezza di una giornata se la mente, il cuore, il cervello sono offuscati dal passato che ha acquistato tanta autorità? Se si può realmente percepire il fatto che la mente è oppressa dal passato e condizionata da varie forme di autorità, che non è libera e quindi è incapace di vedere in modo completo, allora senza sforzo il passato viene eliminato. La libertà implica la totale scomparsa di ogni autorità interiore. Da questa qualità della mente deriva una libertà esteriore – qualcosa di totalmente diverso dal reagire opponendosi o resistendo. […] Quando si comprende la libertà si comprende anche cosa sia la disciplina. E questo può sembrare piuttosto contraddittorio poiché generalmente pensiamo che libertà significhi libertà da ogni disciplina. Qual è la qualità di una mente altamente disciplinata? La libertà non può esistere senza la disciplina; […] Cosa significa dunque “disciplina”? Secondo il vocabolario il significato della parola “disciplina” è “imparare” – non una mente che si costringe a seguire un certo modello di azione secondo un’ideologia o una fede. Una mente capace di imparare è del tutto diversa da un’altra capace solo di conformarsi. Una mente che impari, che osservi, che veda effettivamente “ciò che è”, non interpreta “ciò che è” secondo i propri desideri, il proprio condizionamento, i propri particolari piaceri. Disciplina non vuol dire repressione e controllo, e non è neppure adattamento ad un modello o a un’ideologia; significa che una mente vede “ciò che è” e impara da “ciò che è”. Una simile mente deve essere straordinariamente sveglia, consapevole. […] La disciplina imposta dai genitori, dalla società, dalle organizzazioni religiose significa conformismo. […]Disciplina è imparare, non conformarsi. Il conformismo comporta il paragonarsi agli altri, misurare se stesso secondo cosa si è o si crede di essere con l’eroe, il santo, e così via. Dove ci sia conformismo deve esserci paragone […]. Sin dall’infanzia siamo condizionati a far paragoni […] Nel corso della nostra educazione ci abituiamo a far paragoni, nelle scuole si assegnano voti e si fanno esami. Non sappiamo cosa voglia dire vivere senza far paragoni e senza essere competitivi, e quindi vivere in modo non aggressivo, non competitivo, non violento. Paragonare se stesso ad un altro è una forma di aggressività e di violenza. […] Il perfezionamento di se stessi è proprio l’antitesi della libertà e dell’imparare. […] Ciò che si può descrivere è il conosciuto, e la libertà da ciò che è conosciuto si può avere solamente quando ogni giorno si muore a ciò che è conosciuto, ai colpi, alle adulazioni, a tutte le immagini che avete creato, a tutte le vostre esperienze – morire ogni giorno di modo che le stesse cellule del cervello diventino fresche, giovani, Innocenti.

Jiddu Krishnamurti
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Mantra Pranayama Storie, racconti e poesie

Gayatri mantra, stimolo per la mente

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt

Rg-veda 3, 62, 10

Probabilmente nessuna traduzione può rendere giustizia dei molteplici significati e dell’eco profonda che risuona nel cuore di uno hindu all’ascolto di questo mantra, ma una possibile lettura potrebbe essere la seguente:

“Meditiamo quella desiderabile gloria di Savitur, ch'egli stimoli le nostre menti”.

O anche:

“Noi meditiamo (dhīmahī) sulla gloria di Colui (Savitur) che ha creato l'universo (Bhūr: terra o piano fisico, spazio esterno o Bhaya Akasha; Bhuvah: cielo o piano astrale, spazio interno o Antarakasha; Svah: Cosmo Infinito o piano celeste, spazio del Sé o Cidakasha)
Colui che deve essere adorato (varenyam)
Colui che è l'incarnazione (devasya: del divino) della luce e rimuove i peccati e l’ignoranza (bhargo)
Che Egli possa illuminare (prachodayāt) il nostro (nah) intelletto (dhyo)”

Savitur, I’”Impulsore” I’”Incitatore”, rappresenta in questo conteso il nome del Sole in quanto simbolo del Brahman che sostiene e vivifica l’universo. 

Dal nome Savitur la Gayatri è anche detta Sāvitrī ed è considerata come il più sacro di tutti i mantra vedici. Contiene infatti, nella sua interezza, l’essenza di tutti i Veda, ossia i testi sacri considerati di origine divina e trasmessi direttamente agli antichi veggenti (rsi). I Veda sono costituiti da 4 raccolte:

  • Rg-veda, (delle strofe laudative),
  • Sāma-veda (dei canti rituali),
  • Yajur-veda (delle formule sacrificali) e
  • Atharva-veda (dei sacerdoti del fuoco con funzioni di interpreti di riti magici).

Anche Krishna nella Gita dice: “Io sono il sacro Gayatri” (Bhagavad Gita, X. 35).

Ogni hindu riceve la Gayatri durante la cerimonia iniziatica (upanayana) che lo fa diventare uno dvija, “due volte nato” e a partire da quel momento la sua ripetizione fa parte dei suoi più sacri doveri quotidiani, momento essenziale della samdhyā (crepuscolo del mattino e della sera, propizio alla preghiera ed alla meditazione) durante la quale viene utilizzata sia nel japa (preghiera mormorata o mentale) sia nel prānāyāma.

La Gayatri viene visualizzata:

  • all’alba (momento in cui prevale la qualità sattvica) come la Dea Vāc (la Parola),
  • a mezzogiorno (prevalenza rajasica) come Sāvitrī (divinità che presiede ai prana),
  • al tramonto (qualità tamasica) come Sarasvatī (parola non detta, fiume sotterraneo che scorre in forma non manifesta).

La Gayatri è divisa in tre parti in cui la prima è costituita dal pranava Om e dalle mahāvyāhrti (grandi invocazioni). Il cantore contempla la gloria della luce che illumina i tre mondi o regioni dell’esperienza.

om bhūr bhuvah svah

La seconda parte rappresenta la gloria, lo splendore e la grazia che emanano da quella luce.

tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī

La terza parte è una preghiera per la liberazione finale per mezzo del risveglio dell’intelligenza innata che come luce pervade l’universo.

dhiyo yo nah pracodayāt

È una invocazione universale che non implora misericordia o perdono, ma invoca e chiede un chiaro intelletto, cosicché la verità possa esservi riflessa senza distorsioni o deformazioni.

Nel japa deve essere ripetuta dieci, ventotto o centootto volte, facendola precedere dal pranava e dalle tre mahāvyāhrti, le «grandi acclamazioni» dei tre mondi (“om bhūr bhuvah svah”, cioè “om terra, spazio intermedio, cielo”, rispettivamente stato grossolano, sottile e causale) e facendola seguire ancora dal pranava

Nell’uso per il prānāyāma invece la Gayatri deve essere preceduta dalle sette yāhrti, cioè dalle “acclamazioni” dei sette mondi, precedute ciascuna dal pranava e deve essere poi seguita da un mantra detto śiras o «testa».

Om bhūr (terra)
Om bhuvah (atmosfera)
Om swah (cielo)
Om mahah (grande)
Om janah (che non ha inizio)
Om tapah (che è la luce della Saggezza)
Om satyam (che è Verità)
tat savitur varenyam bhargo devasya dhīmahī dhiyo yo nah pracodayāt
āpo (acqua) jyotī (luce) raso (sapore) mrtam brahma bhūr bhuvah svar (cieli luminosi) om (possiamo dunque trovare il divino ovunque intorno a noi: nell'acqua, nell'aria e nel cibo)

Questa formula deve essere mentalmente pronunciata per intero in ciascuno dei tre momenti del prānāyāma

  • mentre si inspira attraverso la narice destra, bisogna concentrarsi sull’ombelico e visualizzarvi Brahmā di colore rosso;
  • trattenendo il respiro, è necessario concentrarsi sul cuore visualizzandovi Visnu di colore blu;
  • infine, espirando attraverso la narice sinistra, l’attenzione va diretta sulla fronte dove di visualizza Śiva di colore bianco. 

Gayatri (triplice inno) è anche il nome che viene applicato a un metro vedico di 24 sillabe (tre volte otto).

La Gayatri è anche venerata come figura divina, madre dei Veda (dodicesimo libro del Devi-Bhagavata Purana) e dei brahmani, Essa personifica l’energia divina, solare, che vivifica l’universo, e il suo corpo è il mantra stesso, protegge tutti coloro che la cantano e, in quanto energia primordiale (Śakti), ha creato i tre Guna, i tre principi fondamentali che reggono le leggi dell’Universo: sattva, rajas e tamas

Il primo si identifica con Vishnu, il secondo con Brahmā e il terzo con Śiva. Gayatri veniva adorata dalle divinità come la Grande Madre.

La leggenda racconta che quando i tre erano ancora fanciulli, Gayatri Devi li mise nella culla dello spazio, Akasha, che era sospesa dalle quattro catene della Sapienza (i quattro Veda) e cantò loro il Sacro Mantra OM per farli addormentare. Dopo di che, avendo visto che i tre figli, posseduti dai tre Guna, stavano dormendo, scomparve. Passò molto tempo, i tre fanciulli si svegliarono, e non vedendo la madre, si misero a piangere. Crebbero e vagarono nel vuoto dello spazio posseduti dai tre Guna e si prefissero lo scopo di ritrovare la Madre. Per fare ciò, si sedettero in meditazione, per lunghi anni e il fuoco della loro austerità cominciò a divampare nell’intero universo. Allora la madre, colta da grande compassione, mise in atto “lila” e decise di apparire loro innanzi e, benché la Sua visione fosse onnipervadente, si manifestò nella Sua forma individuata. Quando i tre dei la videro, furono abbagliati dal Suo fulgore: essa indossava un abito rosso e ghirlande di fiori ornavano il suo collo, il viso splendeva come la luna piena, aveva tre occhi e, al centro della fronte, un punto rosso vermiglio. Le sue molteplici braccia reggevano le armi celesti come il fiore di loto, la sacra conchiglia, un teschio bianco, una corda e altre ancora. Portava bracciali e cavigliere e anelli e gioielli splendenti e vari ornamenti: venne incontro ai suoi figli correndo. Li accolse tra le sue braccia e disse loro: “Oh! Figli Divini, avrei dovuto correre a voi molto tempo addietro, ma volevo che voi guadagnaste il potere della creazione, Preservazione e Dissoluzione attraverso l’austerità, affinché le anime che prendono parte al gioco divino nel Cosmo (Lila), potessero vedere gli ideali celati dietro l’austerità e ne prendessero esempio. Io ero con voi, però non ero visibile poiché abito nel regno della trascendenza. Ora mi compiaccio e vi conferisco il triplice potere: che Brahmā, attraverso le qualità di rajas (passione e attività) crei; che Vishnu attraverso le qualità di sattva (equilibrio), preservi: che Śiva attraverso la qualità di tamas (distruzione) porti la dissoluzione al termine di ogni ciclo cosmico. Rivolgetevi a me durante i momenti di dubbio e io vi sarò di guida.” Detto questo, la Madre Divina scomparve.

Fonti:

  • Enciclopedia dello yoga, Stefano Piano, Promolibri Magnanelli
  • Glossario sanscrito, Gruppo Kevala, Asram Vidya
  • Miti e dèi dell’India, Alain Daniélou, Rizzoli